IL CORAGGIO DELLA CONCRETEZZA

By Nicola Guiso
Pubblicato il 2 Febbraio 2014

Lo stato della politica italiana richiama un sarcastico commento di Winston Churchill su una stagione di quella inglese. “Peccato – disse – che tutti quelli che saprebbero governare il paese siano occupati a guidare taxi o a tagliare capelli”. Con rispetto per la professionalità specifica delle due categorie infatti, quello che si sente nei dibattiti dei nostri politici non è molto diverso da quello che si sente nei taxi e dai barbieri. Mai, per esempio, salvo rarissime eccezioni, che vengano trattate con la necessaria serietà questioni essenziali (per l’oggi e soprattutto per il domani dell’Italia) quali quelle dei costi reali che comporterebbe, e dove trovare le risorse per coprirli, di  programmi volti a ridare efficienza alle nostre strutture produttive; a riqualificare la scuola e la ricerca; a ridurre gli sprechi e le ruberie nella sanità pubblica; ad ammodernare e ad estendere le infrastrutture; a realizzare un mercato del lavoro che assicuri un equo reddito a chi restasse temporaneamente disoccupato; ma anche senza lo scandalo di interventi di cassa integrazione per otto anni (Alitalia) senza almeno un vincolo che contrasti la tendenza al lavoro nero di chi ne beneficia, e senza programmi per la loro riqualificazione professionale.

I nostri politici (di maggioranza e di opposizione) preferiscono invece dibattere appassionatamente di anacronistiche divisioni ideologiche e culturali tra partiti, delle proprie divisioni interne tra falchi e colombe, tra giovani e vecchi e tra rivoluzionari e riformisti. E quando siano costretti a occuparsi di questioni veramente decisive per la società e per le istituzioni, lo fanno ricorrendo a un linguaggio retorico, magari carico di moralismo a buon prezzo. Per poi sfuggire a scelte coraggiose. Ad esempio, richiamando tutti a contribuire secondo le proprie possibilità (che non sono solo quelle finanziarie ma anche quelle comportamentali nei posti di lavoro) per il reperimento e l’uso delle risorse necessarie alla realizzazione di programmi veri di sviluppo, nel timore di perdere qualche punto di consenso elettorale. Questo è però un comportamento che porta alla paralisi nelle decisioni o, peggio, a decisioni sbagliate e controproducenti che aggravano ulteriormente la situazione generale del paese e delle istituzioni. Col risultato, oltretutto, che i partiti hanno raggiunto un gradimento del 5% nel paese secondo le ultime, e più accreditate, indagini demoscopiche. Ho timore che questo modo di comportarsi abbia contagiato anche Renzi al quale (e con buone ragioni) molti, e non solo del Pd, avevano cominciato a guardare con interesse. In una recente intervista al Corriere della Sera, alla domanda su cosa dovrebbe fondarsi il “patto di coalizione” al fine di assicurare per tutto l’anno un governo efficiente e autorevole, ha risposto che dovrà essere un file excel. Cioè, per dirla in italiano, un prospetto in cui per ogni questione “nella prima casella si indica la cosa da fare, nella seconda i tempi in cui si fa, nella terza il responsabile che la fa. Un esempio? Tagliamo del 10% il costo dell’energia per le piccole e medie imprese: chi lo fa, entro quando, poi si comunica. (…) Bene: quando, come e chi. Cose concrete”.

Non una sola parola, dunque, sulla definizione dei costi per ridurre il 10% del costo dell’energia alle imprese, e da dove prendere le risorse necessarie a coprirlo. Ma sarebbe assurdo chiedergli chi pagherà lo sconto? La risposta che non ha dato Renzi l’ha data però una parlamentare autorevole interprete del pensiero del segretario Pd, Maria Elena Boschi: le società elettriche. Una risposta di sola e pericolosa propaganda. Perché una operazione del genere porterebbe l’Enel, la Edison e le altre società del settore a veder sparire il proprio profitto.

E, quel che è peggio, a dover ridurre drasticamente le quote di ricavo dall’attività da destinare alla ricerca, all’ammodernamento e all’efficienza degli impianti. Si tratterebbe, dunque di un’operazione che, a breve termine, potrebbe contribuire a ridurre lo svantaggio delle imprese italiane che pagano l’energia il 30% in più di quelle degli altri grandi paesi dell’Unione Europea. Ma a medio e a lungo termine tale da creare contraccolpi devastanti alle prospettive di competitività dell’apparato produttivo dell’Italia.

 

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