Solo il tempo è più instabile e imprevedibile della politica interna italiana. Napolitano si dimetterà a fine dicembre, o forse no. Il patto Renzi-Berlusconi – per la nuova legge elettorale, le riforme istituzionali e quella sui contratti di lavoro, il cosiddetto Jobs Act – potrebbe tenere sino al 2018 o dissolversi in elezioni anticipate l’anno venturo. Comunque, sia nel Pd che in Fi il patto è insidiato da astiose minoranze. Grillo sembra in declino per molti, per altri invece ha ancora buone carte. Alfano, Casini, la Meloni e Vendola continuano a proclamarsi il futuro d’Italia, ma ogni giorno di più appaiono residui del passato. Salvini ha certamente fatto guadagnare voti alla Lega. Tuttavia la cosa sembra gli abbia dato alla testa, e si comporta come la rana che gonfiandosi per diventare simile al bue è scoppiata. Pur-troppo, invece, Istat, Banca d’Italia e Commissione Europea hanno fatto chiarezza su questioni decisive per il presente e il futuro dell’Italia, che erano nella nebbia in cui Renzi e i suoi ministri avevano avvolto la legge di stabilità. Che poi è la tradizionale legge di bilancio annuale di previsione dello stato. Cioè il documento che prevede, appunto, le risorse che lo stato intende reperire dai cittadini con tasse, tributi e imposte; la parte di risorse che intende destinare al funzionamento dei servizi essenziali alla vita della società e delle istituzioni; e la parte che intende invece destinare alla tutela dei diritti vitali dei cittadini e allo sviluppo del paese.
Per quest’ultima aliquota il giudizio di Istat, Banca d’Italia e Commissione Europea è che nella legge di stabilità niente fa ritenere che essa possa contribuire a far volgere al meglio la drammatica situazione sociale ed economica dell’Italia. Le analisi dei tre organismi infatti sono concordi – come hanno sottolineato la maggior parte dei più accreditati esperti della materia – nel constatare l’impatto sostanzialmente nullo che la legge avrà sul maggiore problema del nostro paese, quello dell’occupazione. Luca Ricolfi, per esempio, nota che con tre milioni di disoccupati e un tasso di occupazione tra i più bassi del mondo sviluppato, il governo prevede che nel 2015 l’occupazione cresca dello 0,1 per cento e nel 2016 dello 0,5. L’Istat, invece, un po’ più ottimista, prevede un aumento dello 0,2 nel 2015 e dello 0,7 nel 2016. Comunque si tratta di cifre irrisorie che, di fatto, non incidono sul tasso di disoccupazione, e prospettano per l’Italia un ulteriore periodo di stagnazione.
Gli industriali mostrano di apprezzare della legge (senza enfasi) la riduzione dell’Irap e l’eliminazione dei contributi per i nuovi assunti (che però saranno soprattutto subentranti a pensionati, senza dunque creare nuova occupazione). I sindacati invece, imbrigliati dalla conferma del bonus di 80 euro a 10 milioni di occupati nel privato, replicano (la Cgil) con l’arma spuntata dello sciopero generale; e tutte le sigle con gli strepiti contro la fine del glorioso (ma irrimediabilmente vecchio di 44 anni) statuto dei lavoratori. Che negli ultimi 20 anni ha pure contribuito a deprimere l’occupazione; oltreché a tutelare gli occupati, senza rendere meno precari i precari.
Non resta che augurarsi che il dibattito parlamentare sul Jobs Act di Renzi porti parlamento, governo, imprenditori e sindacati a prendere consapevolezza che il problema dell’occupazione prima che di regole è problema di costi, e dunque di risorse. E che se è vero che rendere più flessibili e più legati al confronto aziendale e di settore i rapporti tra imprese e lavoratori crea condizioni favorevoli alla crescita dell’occupazione, resta, comunque, indispensabile a questo fine la disponibilità di risorse adeguate (pubbliche e private) da destinare alla formazione, riqualificazione e tutela sociale e previdenziale dei lavoratori in cerca di prima occupazione, e di quelli che l’abbiano persa. Il resto (e soprattutto le chiacchiere) conta poco. Varrà dunque la pena di portare grande attenzione al dibattito parlamentare sul Jobs Act.