Da un capo all’altro del mondo islamico la Tunisia e l’Indonesia forniscono due esempi che sconfiggono la concezione deterministica – corrente, con una certa spocchia, nell’opinione pubblica occidentale – secondo cui le società musulmane sarebbero impermeabili a valori di libertà, tolleranza e rispetto dei diritti umani, specialmente femminili. In Tunisia, esattamente quattro anni fa nel dicembre 2010, era iniziata la “rivoluzione dei gelsomini”, che aveva fatto sperare in una ventata liberale e democratica delle “primavere arabe”. Risoltasi purtroppo nell’attuale caos mediorientale cui tutti stiamo assistendo, dalla Libia all’Egitto, dal Sudan alla Siria, e nel festival degli assassini del cosiddetto califfato islamico.
La Tunisia ha in qualche modo resistito alla controrivoluzione, anche quando al potere, portato dal consenso popolare, è andato nel 2011 il partito Ennahda di tendenza fondamentalista. Ma la pessima amministrazione coranica, con la restrizione di diritti civili (specialmente per le donne), una visione maschilista della famiglia e una certa indulgenza per l’estremismo islamista hanno condotto i tradizionalisti alla crisi e alla caduta del loro governo, anche per una forte resistenza popolare nelle piazze. Alle elezioni di questo autunno ha vinto una coalizione, diciamo così, democratico-liberale, Nidaa Tounes (Appello della Tunisia), sostenuta dalla classe media, dai giovani, dalle donne, e che si è data una costituzione aperta ai valori comunemente riconosciuti.
Insieme con la Tunisia, all’altro estremo dell’Asia, l’Indonesia è un secondo esempio che l’islam politico (quello cioè che vuole favorire l’applicazione della sharia, la legge coranica) non è per forza il futuro del mondo musulmano. La corsa alla presidenza, in un paese che, con i suoi 250 milioni di abitanti, è la terza democrazia del pianeta, è stata vinta da un outsider, Joko Widodo, un industriale di 53 anni senza rapporti con i precedenti regimi autoritari e controllati dai militari, che avevano condotto ad altissimi livelli di corruzione e favorito la divaricazione fra ricchi e poveri (100 milioni di indonesiani vivono con due dollari al giorno), con persecuzioni spesso feroci contro gli oppositori.
Widodo dovrà vedersela con potenti nemici interni ma gode del favore popolare: è stato eletto con il 53 per cento dei voti contro una coalizione composta da militari, esponenti degli interessi dell’industria e della finanza, tradizionalisti islamici (con qualche sospetto di infiltrazioni estremistiche). È un musulmano praticante e un politico tollerante: nel suo governo, su 34 ministri 8 sono donne e uno è cattolico (di una minoranza che conta sette-otto milioni di fedeli). Il suo è un difficile compito perché dovrà ridurre i privilegi delle caste dominanti, specie per quanto riguarda il settore dell’energia, incentivare l’economia agricola, porre mano a riforme della sanità e dell’istruzione. L’Indonesia è ricca di materie prime e, secondo Widodo, costituisce un ponte, ineliminabile, fra i due oceani, Indiano e Pacifico. E ciò vuol dire anche fra l’India e la Cina, fra l’Asia e il resto del mondo.
Tunisia e Indonesia non sono eccezioni culturali di una società, quella islamica, condannata alla violenza e alla persecuzione dei diversi, gli “infedeli”, ma gli esempi di come sia possibile inserire valori comuni – democrazia, tolleranza, rispetto degli altri – all’interno della propria civiltà. E vorremmo considerarli di buon auspicio per l’universo musulmano, tormentato dai contrasti, nell’anno che viene.