“RIPARTIRE CON PRUDENZA E IN SICUREZZA”

intervista al direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri
By Gino Consorti
Pubblicato il 30 Aprile 2020

I luoghi di grande aggregazione – ammonisce Giuseppe Remuzzi, nefrologo di fama internazionale e luminare tra i più apprezzati e conosciuti – vanno riaperti solo dopo l’accertata fine della epidemia. Nuovi farmaci? Adesso abbiamo capito molto di più sugli effetti del virus, ma solo il vaccino sarà efficace. Per immunizzare tutta la popolazione mondiale ci vorranno anni e moltissimi soldi… Occorre investire tanto nella ricerca per combattere questa e le prossime malattie…”

Superata, speriamo, la prima e cruenta fase del Coronavirus, ora si cerca a fatica di rimettere a posto i cocci…, disegnando un futuro più o meno vicino. Tanti morti, tanta sofferenza, tante grida di dolore e di aiuto… L’Italia è stata messa a dura prova dalla pandemia dove la nostra sanità, assolutamente eroica nei suoi interpreti, ha mostrato evidenti limiti strutturali a causa di una sconsiderata politica di tagli operata negli anni dal mondo della politica. Uno spolpamento continuo fino a vedere l’osso… E non contenti di ciò taluni rappresentanti del potere politico, grazie alla complicità di amici “strilloni”.., hanno seminato nel paese erbaccia in quantità industriale attraverso dichiarazioni pericolosamente superficiali e fuori luogo. Ma questa è un’altra storia, avremo modo di affrontarla più in là, magari in prossimità di nuove elezioni… Insieme all’approfondimento delle varie analisi fiorite qui e là sulle pandemie in generale. E in particolare quella sul Codid-19 che, secondo illustri studiosi, potrebbe significare la fine della civilizzazione moderna, per capirci quella occidentale e capitalista, che ha egemonizzato l’intero pianeta…. Ora, invece, come dicevamo, c’è da mettere in fila le priorità per gestire l’oggi e il domani, senza fughe in avanti e senza approssimazione. Con questo virus, infatti, c’è poco da scherzare, la vita è troppo preziosa per essere messa in discussione da comportamenti insensati e spesso figli del dio denaro… Con la scomparsa di tanti anziani il nostro paese ha perso una larga fetta di memoria, di umanità, di storia, di amore puro. Un patrimonio dal valore inestimabile spazzato via con un soffio di vento… Tutte le vittime, quelle ricoverate negli ospedali, se ne sono andate in solitudine, senza che una mano amica potesse accarezzarle per l’ultima volta. Tanti operatori sanitari lo hanno fatto, e di questo il buon Dio sicuramente renderà loro merito, ma lo strazio di un simile distacco non ha precedenti. Fatta salva, ovviamente, la barbarie della guerra.

È tempo, dunque di mettersi nuovamente in viaggio. Ma dove? Verso la Fase 2, 3, 4…? Il numero non importa, ciò che conta è farlo nella massima sicurezza, rispettando ciò che dice la scienza. È vero, l’ultima parola spetta alla politica, ma in un paese civile dovrebbe limitarsi a “ratificare” ciò che indica la scienza. Non è possibile, tantomeno consigliato invertire i ruoli in nome di chissà quale investitura divina… Nella malaugurata ipotesi di un “rigurgito” pandemico, eventualità purtroppo non esclusa dalla scienza, i danni infatti sarebbero incalcolabili. Prima di dare fiato alle parole, dunque, sarebbe bene pensare a quanti hanno lottato e lottano quotidianamente in prima linea, a costo anche della loro vita. Nelle rianimazioni degli ospedali, nelle ambulanze, nei consulti a domicilio, sotto le tende di fortuna accampate lungo le strade… E magari senza mascherine o attrezzature varie. No, non si scherza con il fuoco, sia ben chiaro. Dev’essere solo la scienza a illuminare il sentiero da seguire, alla politica resta il compito di renderlo accessibile e, se non le si chiede troppo, anche confortevole…

Ma arriviamo ora al nostro gentile interlocutore. Se si parla di scienza non si può non pensare a Giuseppe Remuzzi, da due anni direttore del prestigioso Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano. Il professor Remuzzi è un nefrologo di fama internazionale, un “camice bianco” tra i più apprezzati e conosciuti, anche oltreoceano. Una vera e propria autorità, un grande innovatore padrone della professione e soprattutto rispettoso del giuramento di Ippocrate. Tutta la sua prestigiosa carriera, infatti, testimonia una incredibile tenacia nel perseguire la difesa della vita, il sollievo della sofferenza, i valori etici e di solidarietà umana. Una gran bella persona, positiva nei pensieri e nell’approccio contro il male, qualunque maschera esso indossi…

L’istituto che dirige – fondato dal professor Silvio Garattini – accanto all’attività di ricerca sperimentale svolge un’intensa attività di ricerca clinica che si realizza attraverso la progettazione, il coordinamento e la partecipazione a numerosi studi clinici e la creazione e la gestione di registri di patologia. Insomma, parliamo di una struttura assolutamente all’avanguardia.

Nonostante la freneticità del momento e i tanti impegni il professor Remuzzi ha mostrato grande disponibilità a intrattenersi con noi. Anche questo è sintomo di intelligenza riconoscendo alla comunicazione un ruolo importante. Ancor di più in questo momento.

Direttore lei da che parte sta? Tra quelli che vogliono riaprire subito o tra chi predica pazienza e calma perché la situazione resta ancora molto delicata?

Credo che si possa ripartire per gradi. Questo è quanto ho suggerito di fare al Comitato Tecnico Scientifico istituito dalla Regione Lombardia di cui faccio parte:

1. Convocare i medici competenti e, dove esistenti, i dirigenti di grandi aziende tutt’ora in attività quali Leonardo, banche, poste, grande distribuzione, per ottenere informazioni sui possibili contagi dei lavoratori, a contatto e non col pubblico. Informazioni confidenziali fanno ritenere che i contagi siano stati nulli o trascurabili nel mese di aprile tra i lavoratori in attività. Se confermati, tali dati sarebbero di estrema utilità.

2. Aprire il sistema produttivo a tutti i lavoratori sotto i 40 anni, che hanno rischi trascurabili o nulli di seria patologia da Covid, se non affetti da grave co-morbilità, o anche sotto i 50 anni, per i quali i rischi sono comunque molto piccoli.

3. Mantenere le strutture in grado di gestire pazienti Covid anche nella fase di discesa e dopo la fine dell’epidemia, nell’ipotesi di ulteriori ondate epidemiche.

4. Mantenere ragionevoli misure di distanziamento, pur riaprendo strutture alberghiere, bar, ristoranti, eccetera, mentre i luoghi di grande aggregazione (stadi, feste di vario tipo, eccetera) vanno riaperti solo dopo l’accertata fine della epidemia.

5. Adottare screening con test sierologici solo dopo la loro confermata validità, e se possibile semplificati (prelievo dal polpastrello).

Secondo lei quale potrebbe essere un’ipotesi di data per riaprire il Paese?

Dal 15 maggio in poi, ma molto dipende dai dati che avremo a disposizione in quel momento, soprattutto relativi al numero dei morti.

E con quali modalità?

Con assoluta prudenza e in sicurezza.

Ritiene possibile, ad esempio, una volta terminato il lockdown, mantenere le cosiddette distanze? Penso ad esempio agli affollamenti nelle università, nelle scuole, nelle metropolitane, nei locali pubblici, negli stadi, nei cinema, nei teatri, al mare…

Lo si dovrà fare assolutamente. Ci dovremo abituare. Se ripartisse una nuova onda di contagio non saremmo più in grado di sopportarne l’urto (operatori, presidi, test diagnostici).

È vero che stiamo parlando di una malattia sconosciuta, ma a distanza di mesi la scienza mondiale ha acquisito delle verità indiscutibili?

Assolutamente sì.

Quali sono?

Questa non è una malattia che affligge solo i polmoni, danneggia cuore, reni, intestino, fegato e sistema nervoso. In comune c’è il danno al sistema vascolare (arterie e vene). Molti muoiono improvvisamente per embolia polmonare e infarto. Il virus danneggiando l’endotelio vascolare facilita la trombosi.

Ormai il consiglio di lavarsi spesso le mani è diventato un ritornello in tutto il pianeta. Ciò significa che il virus resta pericoloso e quindi contagioso anche sugli oggetti come ad esempio una maniglia, un telefonino, la tasca di un pantalone, le chiavi dell’auto, la tastiera di un computer…?

Il virus si “appoggia” sulle superfici e ci resta per ore o giorni. Su quanto questo possa essere veicolo di contagio c’è discussione. È bene fare attenzione ma il contagio avviene soprattutto con le goccioline che si emettono con tosse e stranuti. Distanze adeguate sono il modo più efficace di non contagiarsi.

È vero che ci sono persone che stanno anche 4-5 settimane con sintomi lievi o nessun sintomo ma che ancora espellono il virus e di conseguenza sono contagiosi?

Sì, ma si tratta di casi molto rari, di solito entro tre settimane si sviluppano gli anticorpi e non si è più contagiosi.

Dai cosiddetti asintomatici, allora, come ci si “difende” se riapriamo tutto?

Ci si deve mettere d’accordo su un test sierologico rapido e cominciare a farlo. Facciamo tutte le verifiche del caso, anche le più sofisticate, ma facciamolo e ripartiamo. Così sapremo chi ha anticorpi (meglio se sapremo riconoscere quelli neutralizzanti il virus) e consentiamo alle persone di uscire di casa.

Il tampone è il mezzo più attendibile per stabilire la guarigione e la non contagiosità di una persona?

Entro certi limiti sì, ma anche il tampone ha dei limiti. È affidabile nel 70% dei casi e non è detto che un tampone ancora positivo dopo 30 giorni dall’inizio dei sintomi corrisponda a un’attuale contagiosità.

Cosa ci dicono e che ne pensa dei test sierologici?

Che non tutti sono affidabili ma qualcuno lo è e con tutte le verifiche opportune va utilizzato.

Come mai muoiono anche i ragazzi? Nessuno è invulnerabile, neanche chi è giovane ed è senza patologie collaterali?

I ragazzi si infettano come tutti gli altri, di solito non si ammalano ma non è una regola assoluta.

È vero che le donne in età fertile sono protette dagli estrogeni?

Non lo so, non penso. Credo sia una questione di ACE-2, la porta di ingresso del virus che nelle donne funziona in modo diverso rispetto agli uomini. Forse (è un’altra possibilità) le donne fanno più anticorpi contro il virus ma è presto per dirlo. Le donne si infettano come gli uomini solo hanno una malattia più lieve.

A oggi è possibile escludere la possibilità di un ricontagio? Se sì in che percentuale?

No, non è affatto possibile escluderlo.

L’estate, e quindi il caldo, aiuterà a migliorare la situazione?

Speriamo tutti che il caldo migliorerà la situazione, di solito con gli altri coronavirus è stato così.

C’è un particolare che più l’ha colpita in questi mesi?

Certo e dimostra come sia possibile ingegnarsi con pochi mezzi se si è davvero bravi. Dei 72.314 casi della Cina, 44.672 (il 62%) sono stati trovati positivi al test attraverso il tampone, ma i medici cinesi hanno identificato 16.186 pazienti (il 22%) come casi sospetti e nel 15% la diagnosi è stata soltanto clinica con l’aiuto delle immagini radiologiche. Insomma, niente test perché di tamponi non ce n’erano abbastanza.

Il tempo della verità e dell’accertamento di eventuali responsabilità non è ancora arrivato…, però possiamo dire che forse tanti decessi si sarebbero potuti evitare ricoverando da subito le persone con chiari sintomi?

Se ci fosse stato posto negli ospedali sì. Ma le persone rimanevano a casa perché in ospedale non c’era più posto. E quando arrivavano la malattia purtroppo era troppo avanti…

Lei alcune settimane fa aveva annunciato che a livello farmacologico ci sarebbero state novità interessanti…

Adesso abbiamo capito molto di più sugli effetti del virus nel nostro organismo e dobbiamo imparare a curare questa infezione da subito con farmaci che, come pensavo, abbiamo già. Questo virus va rincorso casa per casa. Il medico di famiglia sarà il vero protagonista di questa battaglia.

Attualmente negli ospedali esiste un protocollo standard per la cura del Coronavirus oppure si procede in ordine sparso…?

Ci sono diversi protocolli, non tutti fanno la stessa cosa ma per quasi tutto ci sono autorizzazioni di comitati etici e Aifa (Agenzia italiana del farmaco, ndr). È tutto molto nuovo ed è logico che si stia sperimentando.

Quali sono i farmaci che attualmente rispondono di più?

All’inizio i malati venivano trattati tutti con farmaci che avevano funzionato nell’Aids, si chiamano Lopinavir e Ritonavir, c’erano grandi speranze. “Questa combinazione funziona per l’Hiv, perché non dovrebbe funzionare per quest’altro virus?” Ma dal New England Journal of Medicine del 19 marzo scorso arriva una brutta notizia: questi farmaci per lo meno nello stadio avanzato della malattia (cioè quando servirebbero) non funzionano.

Dal Giappone, intanto, arriva una semi-buona notizia: “Abbiamo Fa-vipiravir, l’abbiamo dato ai cinesi e funziona, chi ha avuto questo antivirale è diventato negativo al tampone dopo una media di quattro giorni”. Persone che erano positive al tampone si sono negativizzate dopo una media di quattro giorni mentre senza farmaco ce ne volevano undici; le radiografie facevano vedere un miglioramento nel 91 per cento dei pazienti con polmoniti trattati con Favipiravir (il famoso Avigan) mentre solo il 62 per cento di quelli che non lo faceva aveva un vantaggio. L’Italia si mobilita, tutti vorrebbero avere Avigan. L’Aifa avvia la sperimentazione ma la verità è che noi non abbiamo abbastanza dati fino a questo momento per sapere se Avigan possa funzionare o no. Intanto il Giappone fa sapere che non sono per nulla sicuri che questo farmaco possa portare un contributo a chi è ammalato di Covid, così Aifa ferma la sperimentazione.

Ce n’è un altro di antivirale, il Remdesivir e l’ha sviluppato Gilead Sciences per Ebola e per virus simili a quello. Funziona bloccando l’enzima che consente la replicazione del virus (RNA polimerasi) ma i pazienti con Ebola trattati con questo farmaco nel 2019 in Repubblica Democratica del Congo non hanno avuto nessun vantaggio, mentre sia in laboratorio che negli animali questo farmaco funziona contro due virus che assomigliano molto a SARS-CoV-2, SARS e MERS. Personalmente riporrei qualche speranza in più in questo farmaco rispetto agli altri. Anche perché i dati nelle scimmie infettate con SARS-CoV-2 e guarite grazie a Remdesivir sono molto incoraggianti.

Da cosa è data la difficoltà maggiore per indivuduare un farmaco efficace?

Davvero efficace sarà solo il vaccino.

A proposito del vaccino, come per altri temi in questi tempi di Covid-19 abbiamo registrato di tutto… Ci aiuta a fare chiarezza?

Il primo studio nell’uomo di un vaccino sperimentale per prevenire Covid-19 è già cominciato negli Stati Uniti, la company si chiama Moderna. Lo ha fatto in 42 giorni, da quando ha avuto a disposizione la sequenza del genoma del Coronavirus isolato in Cina. Anche l’Italia, attraverso la collaborazione dei ricercatori di Pomezia con l’università di Oxford, è a buon punto. Si utilizza una tecnologia estremamente avanzata già messa a punto e registrata per l’Ebola. Nel giro di qualche settimana cominceranno i test prima sul topo e poi sull’uomo.

È un vaccino che utilizza il virus?

Si tratta di un vaccino sintetico che non utilizza il virus ma le informazioni contenute nel suo genoma, già pubblicate nelle banche dati e accessibili alla comunità scientifica. Serviranno molti altri test però per verificare che questo materiale sia davvero capace di indurre una risposta immunitaria. Le fialette sono già arrivate all’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive, branca del NIH, in modo che possano cominciare i primi studi nell’uomo. Per l’estate o forse anche prima avremo i primi risultati, la commercializzazione richiederà dell’altro tempo. Quanto tempo?

Per immunizzare tutta la popolazione mondiale ci vorranno anni e moltissimi soldi. Il punto è il tempo che servirà da quando un vaccino è pronto ed è stato testato nell’uomo a quando si potrà immunizzare una intera popolazione come è stato fatto per la polmonite o per il vaiolo. Passano per forza anni…

Così tanto…?

Lo sviluppo di un vaccino è un processo lungo, costosissimo e ha bisogno di molti step che si svolgono in parallelo per arrivare alla fine a qualcosa che può essere somministrato a tutti. Dopo i primi casi umani che ormai sono già stati fatti in varie parti del mondo, c’è la selezione delle dosi, bisognerà stabilire se è efficace, ci sono da ottenere le autorizzazioni regolatorie. Quindi il processo di manifattura, sviluppo, studi clinici, approccio alla commercializzazione, processi di valutazione e poi manifattura su larga scala. Insomma, è un processo complicatissimo. Saranno molte le compagnie ad avere contemporaneamente vaccini pronti per essere somministrati su larga scala, si dovranno negoziare i prezzi e speriamo che in questo caso data l’emergenza ci si metta d’accordo. Sarebbe bello che chi è più avanti lavorasse insieme per rinunciare ai brevetti potendo contare sul sostegno di vari governi. E poi Who, Medici senza frontiere, Unicef, organizzazioni non governative e altre grandi organizzazioni internazionali dovrebbero avere un ruolo per la distribuzione a chi ne ha più bisogno.

È possibile “saltare” la sperimentazione animale nella preparazione di un vaccino?

No, senza sperimentazione animale non ci sarà mai un vaccino. All’inizio devono essere testati sui topi, poi su piccoli gruppi di volontari sani. A Seattle, in America, questi volontari saranno seguiti per molti giorni dopo l’inoculazione. Dopo la sicurezza si valuta l’efficacia, che per vaccini come questi, prodotti con tecnologie di frontiera, resta un punto interrogativo importante. Anche i 18 mesi complessivi citati da Fauci e dall’Organizzazione Mondiale della Salute, sono verosimili se si va molto in fretta.

In generale quanti progetti ci sono attualmente in laboratorio?

Intanto diciamo che questo sforzo straordinario è stato possibile anche grazie al supporto di Coalition for Epidemie Preparedness Innovation che ha sede in Norvegia e mette insieme forze pubbliche e private con un obiettivo solo: essere pronti alle epidemie con cui il mondo dovrà fare i conti nei prossimi anni. L’obiettivo è sempre lo stesso: mettere a punto dei vaccini nel più rapido tempo possibile, essere pronti prima ancora di conoscere tutti i dettagli del microrganismo che si dovrà combattere. Attual-mente sono già pronti nove candidati per la profilassi di certi virus influenzali e dell’influenza H7N9, oltre a quelli per il Citomegalovirus, Zika e Epstein-Barr. E non basta ancora: vogliono anche essere preparati a possibili recrudescenze di infezioni che conosciamo già, dalla febbre di Lassa a quella del Nilo o della Rift Valley e tante altre. Coalition for Epidemie Preparedness Innovation lavora con case farmaceutiche, istituti di ricerca, università, per esempio con quella di Queensland in Australia: loro erano a un passo dall’aver approntato il vaccino per far fronte alla Mers, adesso si tratta di adattare quelle conoscenze e quella tecnologia a Covid-19. Il Consorzio si sta allargando a Wellcome Trust, Bill e Melinda Gates Foundation, World Economie Forum, oltre ai governi di Norvegia, Germania, Giappone, India. Insomma, l’attività di questi tempi intorno alle malattie virali è formidabile, stanno per cadere le barriere fra le nazioni: era ora. E Moderna non è la sola: fra le case farmaceutiche che stanno lavorando al vaccino, ci sono Inovio, Johnson&Johnson e Sanofi. Pensate che ciascuna di loro ha già un proprio vaccino che sta testando. Ripeto, di fronte a un’epidemia che di fatto potrebbe coinvolgere il pianeta, non è più il caso che ciascuno protegga sé stesso, la propria gente e i suoi brevetti. “Sorveglianza, cooperazione, coordinazione, comunicazione sono le armi migliori per vincere le malattie”, scrive il giornale dell’Associazione dei Medici Americani che spiega come i tuoi cittadini li proteggi solo facendo tutto il possibile per proteggere gli altri, ma non qualcuno, tutti..

Nel lavoro di ricerca qual è ostacolo più arduo?

Senza dubbio i fondi.

In Italia come siamo messi?

Peggio di tutti i paesi industrializzati…

Trovato il vaccino, sarà definitivo o andrà ripetuto ciclicamente come quello per l’influenza?

Per adesso non abbiamo nessuna idea. Ammesso che il numero di nuovi casi si azzeri entro l’estate, non sappiamo nemmeno se il virus tornerà il prossimo inverno come succede con l’influenza. A questa domanda proprio non si può rispondere.

C’è il rischio che il Coronavirus diventi una malattia cronica come l’epatite B?

Su questo non abbiamo ancora abbastanza elementi per esprimere un giudizio. Non penso, a un certo punto il virus muterà e scomparirà come la Sars. Però è il parere di un nefrologo che ha un valore molto relativo nel campo dei virus…

Direttore, chiudiamo la nostra chiacchierata con un appello…

Ricerca, ricerca, ricerca. Aiutateci tutti, ovviamente per quello che potete. Solo così sconfiggeremo questa malattia e… le prossime.

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