L’EROICO AVAMPOSTO DI UN NEMICO INVISIBILE…

medici e infermieri in prima linea
By antonio sanfrancesco
Pubblicato il 30 Aprile 2020

Tante le storie negli ospedali dove si combatte il Coronavirus. Alla fine del turno telefoniamo ai famigliari dei pazienti per dare loro notizie, siamo l’unico tramite. Spesso dobbiamo dire che il loro congiunto non ce l’ha fatta, non è facile, hai costantemente la morte addosso…”

Nel giro di pochi giorni ci siamo ritrovati in uno scenario di guerra». giovanni albano è il primario di rianimazione della clinica humanitas gavazzeni di bergamo, insieme a brescia la provincia più colpita d’italia dal coronavirus. “una guerra veloce, repentina e cruenta”, la definisce luca lorini, primario di terapia intensiva all’ospedale papa giovanni xxiii, sempre a bergamo, una struttura tra le più grandi d’europa per posti letto di rianimazione, efficienza, preparazione: “nei giorni più terribili di marzo abbiamo movimentato ottomila litri di ossigeno al minuto – spiega – e non bastavano”. troppi contagi, troppi pazienti che arrivavano in ospedale in condizioni disperate con il virus che si stava già mangiando i polmoni, troppi morti. “ricordo le ambulanze in fila davanti alla clinica come un incubo”, dice albano. fila che sarà replicata tante altre volte con i mezzi dell’esercito che portavano via le salme fuori regione per essere cremate perché i forni crematori della bergamasca non bastavano più.

di questa guerra scatenata da un nemico invisibile, forse da molti sottovalutato, almeno all’inizio, medici e infermieri hanno rappresentato l’avamposto. i più esposti, i più sacrificati. nessuna retorica, molti di loro – tanti, troppi – sono caduti sul campo. il sito della fnomceo (federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi) è listato a lutto da fine febbraio e ogni giorno pubblica i nomi dei camici bianchi morti a causa del contagio. sono settantatré al 3 aprile. ci sono medici di famiglia, cardiologi, anestesisti, pediatri, odontoiatri. molti di loro erano in pensione e sono rientrati in servizio per dare una mano. C’è anche un medico penitenziario perché le carceri sono uno dei posti più a rischio di diventare un focolaio e dove nessuna distanza sociale può essere rispettata a causa del sovraffollamento.

Faccio questo mestiere da trentacinque anni e non mi sono abituato ancora a perdere un paziente – racconta Lorini, – quando ne muore uno in tempi normali non riesco a darmi pace, rimango triste e faccio un’analisi. Questo stato d’animo lo dobbiamo moltiplicare per cento. Qui abbiamo perso anche dodici malati al giorno. Uno strazio. Certo, ogni giorno guarivano settanta persone che ci davano in un certo senso la forza e la speranza di andare avanti”.

Lorini racconta, tra le tante, una storia che l’ha particolarmente colpito: “Nei primi giorni di marzo arrivavano persone anziane. C’era un uomo di 84 anni con la polmonite che stava molto molto male e ha avuto accesso alla rianimazione. L’abbiamo intubato e poi è morto. Quello che mi ha colpito è che dopo dieci giorni avevamo ricoverato un signore con lo stesso cognome: era il figlio di 56 anni. Abbiamo dato il doppio del massimo perché non avrei accettato che padre e figlio morissero nello stesso ospedale a pochi giorni l’uno dall’altro. Alla fine il paziente è guarito ed è tornato a casa”.

Albano racconta la sua vita ai tempi del Coronavirus: “Ogni sera torno a casa profondamente devastato, fisicamente e psicologicamente. Malgrado siano passati tanti giorni non riusciamo ad abituarci a questo livello di tensione. Anche perché c’è un grande stress organizzativo e fisico, perché per evitare il contagio bisogna lavorare con tutti i dispositivi di protezione. E siamo fortunati ad averli perché molti nostri colleghi, fuori dagli ospedali, si sono contaminati, anche inconsapevolmente, perché privi di mascherine”. Albano, siciliano d’origine, è sposato e ha due figli, uno di 23 e l’altro di 19 anni. Il maggiore studia Medicina: “Cerco di tranquillizzarli perché sono molto spaventati. Un risvolto positivo di questa calamità è che forse, quando tutto sarà passato, ci farà considerare le cose in maniera diversa, speriamo migliore”. Gli aneddoti sono tanti. Chi è in trincea da tanti giorni vede scorrere la vita e la morte, la sofferenza e la guarigione. “Ricordo ancora – dice Albano – un paziente intubato in terapia intensiva. Erano i primi di marzo, verso le sette di sera. Avevamo vissuto l’ennesima giornata da tregenda. Quell’uomo, avrà avuto 58 anni, mi ha visto abbastanza provato, è rimasto colpito e mi ha fatto segno con il pollice in su come a dire: ‘Sto bene non preoccuparti, io ce la sto mettendo tutta ad uscire fuori di qui con le mie gambe’. Questa è una malattia rispetto alla quale i malati non sono preparati e che ha dei peggioramenti repentini, questione di attimi, di fronte ai quali noi per primi siamo spiazzati. I bergamaschi sono gente tosta, forte. Hanno dato prova di dignità e coraggio. Non dimentichiamolo quando tutto questo sarà finito”.

Il motto dei medici di Crema: #noiciprendiamocura

Tutto andrà bene è stato lo slogan più in voga per fare e farci coraggio. All’ospedale di Crema però ne hanno utilizzato un altro: #noiciprendiamocura. Una frase che pian piano hanno iniziato a portare attaccata al petto parecchi medici, infermieri e operatori impegnati a curare i contagiati da coronavirus. L’iniziativa è partita da Elisabetta Buscarini, direttore del reparto di Gastroenterologia ora trasformato in reparto Covid-19, per dire ai pazienti, isolati, lontani dagli affetti, senza più poter ricevere le visite di figli e parenti che non sono soli: “Questa etichetta è servita per dare loro coraggio, rassicurarli e non farli sentire abbandonati”. Buscarini racconta com’è stare in trincea: “Si va avanti senza guardare l’orologio, senza orari. L’unica preoccupazione è che tutti gli operatori siano protetti e che abbiano una tenuta fisica e psicologica. Tenuta che ha consentito di mettere a punto una rete di comunicazione per i malati”. A organizzarla è stata la direzione socio sanitaria dell’ospedale. Attraverso, l’Urp (Ufficio relazioni con il pubblico) vengono raccolte le chiamate dei parenti che arrivano ogni giorno al centralino e che “che chiedono di avere un contatto con uno di noi”. Chiamate che “ci vengono poi girate in modo da poter richiamare” i famigliari per tenerli informati o consentire uno scambio di messaggi tra chi è ricoverato e la sua famiglia.

È il supplemento di fatica e dolore cui sono chiamati i medici in questa tragedia. “Alla fine del turno telefoniamo ai famigliari per dare loro notizie, siamo l’unico tramite con le famiglie. Spesso dobbiamo dire che il loro congiunto non ce l’ha fatta, non è facile, hai costantemente la morte addosso”, spiega Flaminia Coccia, 31 anni, specializzanda all’ultimo anno in Geriatria nel Poliambulanza di Brescia, un ospedale multispecialistico privato no profit, convenzionato con il Servizio sanitario nazionale. Qui i posti letto dedicati ai pazienti Covid-19 sono 412, di cui 61 di terapia intensiva, 281 nei reparti riconvertiti e 70 di osservazione breve intensiva in pronto soccorso, ottenuti dalla riconversione degli spazi dedicati ai blocchi operatori.

La dottoressa Intissar Sleiman, d’origine libanese ma in Italia dagli anni novanta, specializzata in Medicina interna, lavora nel reparto di Geriatria dell’ospedale Poliambulanza di Brescia. Spesso, racconta, chiama su WhatsApp i familiari dei pazienti, soprattutto quelli anziani che sono i più isolati: “Non è facile lavorare in questa situazione. Sai che i malati, e i loro familiari, dipendono da te, dal tuo umore, dalla tua fatica, dalla capacità che hai di poter sdrammatizzare e strappare un sorriso o dire una parola di consolazione. Anche noi, paradossalmente, siamo soli e soffriamo la solitudine. Per fortuna che c’è un sentimento di aiuto reciproco, siamo ormai una grande famiglia. A volte scoppio a piangere ma è un pianto liberatorio, che dà sollievo. Non so come usciremo da questa storia, sicuramente molto cambiati”.

Oltre la cura, la benedizione

Non curano e basta, i medici e gli infermieri in trincea. Consolano, aiutano, accarezzano, danno la benedizione e pregano in assenza dei cappellani, molti dei quali, soprattutto in Lombardia, sono finiti in quarantena o, come a Lodi, essendo troppo anziani e quindi più a rischio contagio, non possono entrare nei reparti. Il vescovo di Bergamo, Francesco Beschi, ha scritto una lettera a tutti i sanitari impegnati invitandoli a compiere un “gesto molto semplice di benedizione che può rincuorare il paziente” e spiegando che in questa situazione tutti gli operatori sanitari, credenti o increduli che siano, possono diventare “segno della vicinanza di Dio dando dignità umana e cristiana alla malattia, alla sofferenza, e al passaggio finale della vita umana”.

Come è successo a don Paolo Camminati, 53 anni, a lungo responsabile della pastorale giovanile diocesana e protagonista di molte Giornate mondiali della Gioventù (Gmg), che è morto il 21 marzo scorso all’ospedale di Piacenza. Al suo capezzale prima della fine c’era un giovane infermiere che ha recitato con lui tre Ave Maria e poi si è scusato di non riuscire a recitare tutto il Rosario perché non aveva tempo.

All’ospedale di Melzo, hinterland di Milano, la dottoressa Elisa Musco ha raccontato una vicenda lieta, pur nel dramma: un paziente anziano chiedeva notizie di sua moglie, anche lei ricoverata nello stesso ospedale per Corona-virus. Alla fine, tramite la badante rimasta a casa, la dottoressa è riuscita a rintracciare la signora e siccome casualmente si era liberato un posto nella stanza del marito li ha messi accanto, di nuovo insieme: “Stare vicini ha dato un enorme sollievo a entrambi – ha raccontato – non ho fatto nulla di straordinario ma per loro è stato importantissimo”.

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