NON BEVETEVI LA VITA

L’accorato appello ai giovani di Luigi Rainero Fassati
By Gino Consorti
Pubblicato il 2 Marzo 2020

luminare della chirurgia e dei trapianti di fegato, a 84 anni gira nelle scuole raccontando agli studenti la sua esperienza vissuta aL fianco di tanti ragazzi vittime dell’abuso di alcol. È la prima causa di morte dai 16 ai 22 anni

Una vita con il bisturi in mano. Poi, nell’età della pensione, in giro nelle scuole a sensibilizzare i giovani sul triste fenomeno dell’abuso di alcol. Possiamo riassumere in queste poche righe lo straordinario percorso del professor Luigi Rainero Fassati, medico, chirurgo, trapiantista e scrittore. Una carriera  folgorante che lo ha visto professore ordinario di Chirurgia generale, direttore della Scuola di specializzazione in Chirurgia pediatrica dell’università di Milano e del Dipartimento di Chirurgia generale e dei trapianti della Fondazione Ospedale Maggiore. Oltre 300 pubblicazioni scientifiche sulle più importanti riviste internazionali nonché autore di libri di successo, tra gli ultimi Mal d’alcol e Un tempo per guarire, entrambi pubblicati da Salani Editore. Un luminare della chirurgia e dei trapianti, un ingegno versatile che ha dedicato gran parte della sua avvincente esistenza a difesa di quel dono prezioso che è la vita. Prima nelle asettiche sale operatorie, poi attraverso una capillare informazione tra i giovani studenti raccontando la sua esperienza vissuta al fianco di tanti ragazzi vittime dell’abuso di alcol.

Parliamo di una vera e propria piaga sociale, la prima causa di morte dai 16 ai 22 anni. Pensiamo, ad esempio, alle tante “stragi del sabato sera” e alle numerose vittime innocenti di guidatori ubriachi. L’ebrezza, ricordano gli esperti, induce a sottovalutare le situazioni di pericolo; la riduzione della trasmissione nervosa rallenta i riflessi; l’alcol induce sonnolenza e riduce la capacità di concentrazione. Se il tasso alcolemico è di un grammo/litro, la pericolosità per sé e per gli altri aumenta di venti volte rispetto a un tasso di 0,5. Inoltre non va dimenticato che se si comincia a bere da giovani il rischio di andare incontro alla dipendenza da alcol è particolarmente alto. Una ricerca pubblicata dalla prestigiosa rivista scientifica inglese The Lancet definisce addirittura l’alcol la droga più nociva della società. Settantadue punti su 100 contro i 55 dell’eroina… Da rabbrividire.

Tanto per restare all’attualità, il famigerato binge drinking – l’assunzione di più bevande alcoliche in un intervallo di tempo più o meno breve – così di moda oggi tra i giovani, rappresenta un salto nel buio, uno sballo particolarmente dannoso. È più che mai necessario, dunque, sensibilizzare ragazzi e ragazze su quanto sia importante tenersi lontani dall’alcol.

Per il professor Fassati è diventata quasi un’ossessione, non sa darsi pace. Come dargli torto? A 84 anni seguita a spendersi contro il mal d’alcol, anche perché ancora gli capita di svegliarsi in piena notte e trovarsi davanti l’immagine di un giovane privo di vita su un tavolo operatorio… Sin da bambino il chirurgo-scrittore aveva manifestato la passione per il bisturi… A quattro anni avrebbe voluto “aprire” il pancione della mamma incinta per vedere cosa provocasse quegli strani movimenti… L’amore per la medicina, invece, arrivò più in là, complice la poca simpatia per la fisica e la matematica. Studente del liceo Classico, l’anno prima della maturità fu rimandato in entrambe le materie e per punizione i suoi genitori lo spedirono a Reggiolo, in provincia di Reggio Emilia, a casa di una zia zitella, terziaria francescana. I suoi cinque fratelli, invece, insieme ai cugini, si organizzarono, come ogni anno, delle lunghe vacanze al mare. Come recita però il vecchio adagio, non tutti i mali vengono per nuocere. Così, quella che s’annunciava un’estate da dimenticare si rivelò portatrice di scenari illuminanti. Intanto conobbe il medico condotto del luogo che all’epoca, come tanti, si occupava di tutto… Diventò la sua ombra durante le visite a domicilio e in ambulatorio, imparò anche a iniettare i farmaci in vena. Una vera folgorazione.

La seconda svolta arrivò grazie alla fornitissima biblioteca della zia. Oltre 8 mila volumi, tutti ben tenuti, rigorosamente divisi però tra quelli “leggibili” e quelli off-limits… Ovviamente la sua curiosità s’indirizzò verso quest’ultimi… Fu così, allora, che si ritrovò tra le mani il Decamerone di Boccaccio… Da quel momento nacque una grande passione per la lettura, alla quale successivamente si aggiunse quella per la scrittura.

Naturalmente con una carriera così lunga e appassionante gli aneddoti, di qualunque colore, fuoriescono dal baule dei suoi ricordi. Come quella volta che decise di espiantare il fegato a un 18enne, senza però essere in possesso dell’organo sostitutivo… Ubriaco, in piena notte il ragazzo era finito fuori strada con il motorino dopo una serata in discoteca dove lavorava come dj. In ospedale gli trovarono il fegato spappolato, solo il trapianto avrebbe potuto salvarlo. In quel momento, però, né in Italia né in Europa c’erano donatori disponibili… Il fegato del ragazzo seguitava a buttare fuori sangue come una fontana e le continue trasfusioni, oltre trenta, non erano servite a nulla. Di lì a poco sarebbe morto. A quel punto, dopo aver ricevuto l’ok dei famigliari – in caso di morte quel sì non gli avrebbe comunque risparmiato un processo penale… – chiese alla sua équipe di assisterlo all’espianto, seguendo la procedura utilizzata per chi è vittima di un avvelenamento da funghi. Cioè tenere in vita per un po’ il paziente in rianimazione. In questo caso, però, il fegato “nuovo” non c’era… I collaboratori non volevano imbarcarsi in una storia che avrebbe sicuramente significato la perdita del posto di lavoro… Fassati, allora, firmò una liberatoria che li metteva al riparo da ogni responsabilità. Si assumeva in prima persona la decisione e le eventuali conseguenze. In un’ora realizzò una connessione tra la vena porta e quella cava inferiore, per permettere la continuità della circolazione del sangue anche senza fegato, poi asportò l’organo. L’emorragia cessò, la pressione tornò normale, cuore e reni pure. Però mancava sempre il donatore… Quanto avrebbe potuto resistere in rianimazione? Una, due, al massimo tre ore, non c’erano precedenti… Ne trascorsero ventuno e quando ormai, ci si preparava al peggio, alle tre del mattino ecco una chiamata sul cellulare del professore. Era il centro di Parigi che comunicava la disponibilità di un donatore a Graz, in Austria. Il fegato, in buone condizioni, era di un settantottenne. Attivate tutte le procedure, dopo ventisei ore dall’espianto, alle 8 del mattino il giovane era pronto sul tavolo operatorio. Alle 8,50 il nuovo fegato funzionava alla perfezione e tutti i parametri erano nella norma. Tre giorni dopo lasciò la rianimazione e dopo altri tredici tornò a casa in ottime condizioni. Promise a tutti che non avrebbe più toccato una goccia di alcol. Purtroppo andò diversamente… Dopo aver ripreso a bere, a cinque anni dal trapianto morì a causa di una grave emorragia gastrica… Aveva da poco compiuto 23 anni.

Ho voluto raccontare questa straordinaria vicenda per inquadrare meglio il personaggio che mi aspetta nella sua abitazione. Ma soprattutto per capire cosa spinge un 84enne a rimettersi in gioco per offrire una via di uscita a chi, purtroppo, spesso crede di essere immortale…

Professor Fassati, a chi deve la scelta di diventare un chirurgo trapiantista?

Al mio direttore, il professor Dinangelo Galmarini. In Brasile aveva assistito ai primi trapianti di fegato nei maiali, così tornato in Italia decise di percorrere quella strada.

Oltre 50 anni trascorsi al Policlinico di Milano. Qual è il ricordo più bello e più brutto che si porta dietro?

All’epoca, quando cambiavano i grandi direttori delle cliniche, i cosiddetti baroni, i loro allievi solitamente occupavano il posto dei colleghi degli ex dirigenti. Capitò anche a me di essere messo da parte, nonostante mi trovassi in una posizione di “lancio”… Per quasi un anno fui destinato esclusivamente alle analisi delle urine, addio sala operatoria. Attraversai un periodo molto duro, tanto che pensai anche di abbandonare la professione. Il ricordo più bello, invece, risale al 1983, quando realizzammo a Milano il primo il trapianto di fegato. Ero tornato un anno prima dall’America, fu una soddisfazione incredibile, anche perché avevamo tutti contro.

Cioè?

Nessuno ci credeva, ci accusavano di essere dei pazzi, degli assassini… Invece l’intervento riuscì perfettamente e il trapiantato, un vigile del fuoco di Ravenna, visse a lungo. Fu una grande rivincita nei confronti di uno scetticismo generale.

Ricorda qualche aneddoto in particolare nel corso della sua lunga carriera?

Da giovane  facevo le guardie mediche in un ospedale militare che aveva un’ala riservata ai pazienti civili. Un pomeriggio portarono una ragazzina completamente cianotica, quasi morta… Era andata a trovare sua nonna ricoverata in ospedale e una vespa le era entrata in bocca pungendola. Immediatamente la gola si era gonfiata e la piccola non riusciva a respirare… All’epoca non si utilizzava ancora il cortisone, quindi praticai una tracheotomia. Le misi una cannula in gola e subito tornò a respirare. Fu un’esperienza incredibile.

Di ragazzi vittime dell’alcol, invece, quanti ne ha curati chirurgicamente?

Ne ho trapiantati sette, tutti in coma etilico acuto e di un’età tra i 14 e i 16 anni… Avevano il fegato completamente morto, ancora conservo le diapositive. Ricordo bene una ragazzina di 15 anni, completamente astemia, che aveva seguito i compagni in una sorta di discoteca. Naturalmente, come spesso accade quando si è in compagnia, dopo ripetute insistenze degli amici aveva mandato giù due/tre bicchierini di vodka per poi collassare… A quel punto, spaventati, gli amici la lasciarono nei pressi di un pronto soccorso. La biopsia al fegato non lasciava speranze, era completamente fuori uso, non c’era neanche una cellula viva. In quel caso solo il trapianto può salvarti la vita. Fortunatamente, anche se era una quindicenne, fisicamente era abbastanza grande quindi riuscii a trapiantarle il fegato di un donatore adulto. Quando si procede a un trapianto, infatti, bisogna trovare un organo che per dimensioni ci stia dentro…

Per casi non legati al consumo di alcol cosa ricorda in particolare?

Una grande esperienza l’ho maturata nei trapianti pediatrici, precisamente per la malattia denominata Atresia delle vie biliari. Abbiamo trapiantato più di 150 bambini di un’età compresa tra i tre mesi e i quattro anni. Piccoli che nascono con una malformazione delle vie biliari, per cui si ha un’ostruzione al flusso della bile verso l’intestino. Bile, dunque, che ristagna nel fegato che a sua volta inizia a ingrandirsi e il bambino assume una colorazione gialla. Naturalmente senza un trapianto si è destinati alla morte.

In quel caso come si trovano donatori di fegato con dimensioni così piccole?

In effetti di bambini, fortunatamente, ne muoiono pochi, di conseguenza negli anni è stata introdotta la tecnica denominata split liver che consente di salvare due vite contemporaneamente con un solo organo. Il fegato di un donatore adulto, infatti, viene diviso a metà e siccome il lobo sinistro è piccolo può essere adattato nel corpo di un bambino. Quello destro, invece, è destinato a un ricevente adulto. Tutto ciò ha permesso di azzerare le liste di attesa e i cosiddetti viaggi della speranza all’estero.

Torniamo agli effetti del consumo di alcol tra i giovani. I rischi sono veramente elevati?

Assolutamente sì, soprattutto nei ragazzi con meno di vent’anni.

Perché?

Quando noi beviamo, la molecola dell’alcol, che si chiama etanolo, va subito in circolo e in circa 20 minuti arriva al fegato, ai polmoni, al cervello, eccetera. Ecco perché dopo una bevuta si avverte uno stato di euforia oppure, nei casi peggiori, si va incontro al coma. Il nostro fisico, però, che è un medico eccezionale e di conseguenza andrebbe sempre assecondato, sapendo che l’alcol fa male tende a eliminarlo.

In che modo?

Dopo una grande bevuta spesso una parte di alcol si espelle attraverso il vomito. Un’altra, tra il 3 e il 10 per cento, viene invece eliminata dai polmoni.

Ecco il perché, allora, del test del palloncino in dotazione a Carabinieri e Polizia…

Esattamente. Rappresenta una prova inequivocabile della presenza dell’alcol nel nostro corpo. Tenga presente, però, che il test prende in esame solo la piccola parte che è nei polmoni… La terza e più grande funzione, però, è svolta dal fegato che, tramite un enzima denominato alcol deidrogenasi, scinde l’alcol attraverso dei processi metabolici in acqua e in anidride carbonica. L’acqua, dunque, viene eliminata con le urine mentre l’anidride carbonica con il respiro. Il fegato, pertanto, rappresenta l’organo-bersaglio dell’alcol, ma nello stesso tempo è quello in grado di salvarci.

Ma perché i ragazzi corrono rischi maggiori?

Fino al 18/20 anni l’enzima in questione non è presente nel fegato. Pertanto i ragazzi non possono scindere e quindi eliminare l’alcol che bevono. Su questo argomento di fondamentale importanza, però, c’è ancora tanta disinformazione… Tra l’altro nelle donne il fegato, per una questione genetica, ha solo il 50% di quell’enzima in grado di eliminare l’alcol, pertanto sono ancora più a rischio. Nelle donne incinte, poi, il danno è doppio poiché l’alcol attraversa la placenta e potrebbe danneggiare anche il feto.

L’etanolo, dunque, non fa sconti…

Se ingerito in dosi pesanti ha la capacità di uccidere le cellule. Recentemente ci sono stati diversi casi di sfide assurde tra giovani, a chi beveva di più, documentate su Facebook. Cinque di loro, purtroppo, sono morti sfidandosi in diretta…

In che percentuale si limitano i danni in caso di un consumo moderato di alcol?

Se si consuma alcol in maniera non estremamente pesante, parliamo per capirci della bevuta del sabato sera tra amici, indicativamente decretiamo la morte di circa un milione e mezzo di cellule del fegato che però, a sua volta, ha una straordinaria capacità di rigenerazione. Ad esempio, quando in caso di tumore asportiamo mezzo fegato, nello spazio di circa due mesi si è già ricomposto come prima… Questi ragazzi del “sabato sera” dunque, ovviamente non parliamo di chi non ha ancora sviluppato l’enzima, se aspettassero almeno un mese prima di toccare nuovamente l’alcol subirebbero un danno minore. Se invece la settimana dopo tornano a farlo non possono che peggiorare la situazione.

Con quali possibili conseguenze?

Come prima cosa vanno incontro alla steatosi, cioè al fegato grasso, quindi alla fibrosi e infine alla cirrosi, cioè uno stato irreversibile…

Spesso nelle compagnie giovanili c’è qualcuno che si vanta di “reggere” l’alcol… C’è un fondamento di verità oppure è solo spavalderia?

Un piccolo fondamento di verità c’è. Coloro che “reggono” più di altri l’alcol, infatti, probabilmente nel fegato hanno una percentuale maggiore di quell’enzima… Naturalmente, però, alla lunga anche loro avranno problemi… Chi invece non riesce a sopportare neanche una goccia di alcol vuol dire che ne possiede una quantità minima nel fegato.

Quali organi vengono interessati dall’eccesso di alcol?

Possiamo dire tutti. Al cuore, ad esempio, causa una progressiva insufficienza cardiaca; nel cervello, invece, uccide i neuroni che, a differenza delle cellule del fegato, non si rigenerano più… È vero che di neuroni ce ne sono tantissimi ma quelli che muoiono non tornano più. L’altro problema dell’alcol, sempre in età giovanile, è l’insorgenza di tumori a livello dello stomaco, dell’esofago, dell’apparato genitale, maschile e femminile e del pancreas. In questi casi l’incidenza dei tumori è superiore di gran lunga alla media, è quasi il doppio.

Bere a stomaco vuoto fa più male?

Assolutamente sì. Se si beve a stomaco pieno, infatti, l’etanolo arriva al fegato in una quantità diluita dal cibo. Quindi anche nei ragazzi che non hanno ancora sviluppato l’enzima il cibo riuscirebbe ad attenuarne gli effetti. Viceversa, l’alcol arriverebbe a cascata causando una strage di cellule…

Ma l’alcol fa male a prescindere dalle quantità ingerite oppure contempla anche un beneficio?

Nei ragazzi che non hanno ancora l’enzima l’alcol sarebbe da bandire. Negli adulti, invece, una quantità modica di alcol può essere tollerata.

Tradotto in bicchieri di vino che misura viene fuori?

Consumando complessivamente un litro e mezzo a settimana, durante i pasti, di vino o birra, si rientrerebbe nella soglia di sicurezza. Anzi, apporteremmo qualche beneficio alla circolazione sanguigna attraverso la dilatazione dei vasi. Il problema, però, diventa più delicato quando parliamo di superalcolici. Riferendoci agli adulti, in una settimana, ovviamente sempre a stomaco pieno, sono ammessi uno o al massimo due bicchierini, tenendo sempre presente però la gradazione del liquore ingerito. Più è alta più il danno è elevato.

È vero che l’alcol facilita la digestione?

Diciamo intanto che bevendo a stomaco pieno facciamo meno danni… Se ne ingeriamo una piccola quantità sicuramente possiamo trarne beneficio poiché si crea un transito facilitato attraverso lo stomaco. E al fegato non causa grossi problemi, sia perché arriva con il cibo, sia perché parliamo di modiche quantità. In questo caso, allora, potremmo dire che facilita la digestione. Se invece esageriamo, non solo non facilitiamo la digestione ma creiamo grossi problemi digestivi visto che l’alcol può causare gastriti e tumori dello stomaco.

Bere un superalcolico per riscaldarsi in condizioni climatiche rigide: è una buona pratica?

Essendo l’alcol un vasodilatatore nel momento in cui lo ingeriamo avvertiamo una sensazione di caldo. Quindi, ad esempio, bevuto un grappino sotto la neve avvertiamo subito una sensazione di calore. Non consideriamo, però, che più disperdiamo calore, più sentiamo freddo. Sul momento, quindi, ci riscaldiamo ma subito dopo l’effetto ci farà disperdere il calore e quindi avvertiremo maggiormente il freddo. Le basse temperature, infatti, causano una vasocostrizione cutanea che rallenta la perdita di calore. Parliamo, dunque, di un beneficio temporaneo che poi diventa dannoso.

Lei ha mai bevuto sostanze alcoliche nel corso della vita?

Quando ero ragazzo sicuramente ho partecipato a qualche bevutina serale… Poi, però, una volta all’università, quando ho iniziato a frequentare l’ospedale ho smesso completamente. E non ne ho avvertito mai la mancanza…

Quanto sono pericolose le ricadute in uno che è afflitto da dipendenza?

Le ricadute sono drammatiche perché feriscono in due modi. Da una parte annullano tutti gli sforzi che un alcolista ha fatto per uscirne fuori, dall’altra ti porta alla depressione. L’alcol è una calamita che si fissa nel cervello, tanto più quando si è giovani e quando uno vive un momento di tristezza, di difficoltà, di depressione ecco che la calamita ti attira lanciando messaggi… La ricaduta, dunque, è una grave sofferenza, sia a livello fisico che morale.

Cosa consiglia allora?

Innanzitutto se ne siamo usciti fuori attraverso l’aiuto di strutture specializzate è importante proseguire quel percorso anche una volta guariti, almeno per un altro tratto di strada. Altra cosa importante è l’ambiente in cui si vive, chi gli sta attorno deve trasmettere amore, attenzione, disponibilità…

Esistono farmaci che “allontanano” dall’alcol?

Sì, ma sono discutibili… C’è un farmaco, a lento rilascio, che crea vomito non appena si tocca l’alcol. Va inserito sotto pelle. Alla lunga, però, sembra che perda l’effetto, il fisico si abitua… Altre controindicazioni non ci sono. Per carità, possono essere d’aiuto, ma la vera svolta deve esserci a livello psicologico.

A suo avviso perché sempre più giovani fanno uso di alcol?

Tra le cause sicuramente c’è il cosiddetto branco. Se un giovane che non beve si trova in un gruppo di amici avvezzo a farlo, molto probabilmente cederà alle insistenze e agli inviti… Questo capita soprattutto alle ragazze. Non bisogna dimenticare che l’alcol crea disinibizione, quindi spesso ragazzi e ragazze ricorrono a questa sorta di “spinta”… L’altro aspetto da tenere presente, invece, è il rapporto con i genitori. Le dico sinceramente che non credo al proibizionismo. Se infatti si proibisce una cosa senza approfondirne il motivo ritengo si ottenga l’effetto contrario… Detto questo, prendendo in esame alcune statistiche particolarmente affidabili, è possibile affermare che se il ragazzo o la ragazza vive in una famiglia dove c’è dialogo, confidenza, complicità e non invece mutismo e punizioni, la possibilità che possano legarsi all’alcol supera appena l’1%. Viceversa, in una famiglia dove i genitori sono abituati a bere pesantemente, se ne fregano che il figlio, ad esempio, rincasi alle tre del mattino, eccetera, la percentuale sale al 16%. È chiaro, quindi, che l’ambiente familiare e la cerchia di amicizie sono fondamentali.

Da pensionato ha deciso di girare nelle scuole per mettere in guardia gli studenti dai pericoli dell’alcol. Una bella sfida…

Sino a oggi ho incontrato circa 60 mila ragazzi. Sia chiaro, non racconto la teoria ma casi clinici che mi sono capitati e che documento attraverso le diapositive. I casi che affronto solitamente sono molto forti, spesso fanno impressione, certamente però qualcosa resta nelle loro menti… Ad esempio mostro le immagini di un fegato cirrotico cui segue il mio consiglio: “Ogni volta che siete in procinto di una serata dedicata all’alcol, fatevi tornare in mente questa immagine…”.

Che tipo di risposta arriva dai ragazzi?

Al termine di ogni incontro faccio una sorta di sondaggio. Come prima cosa chiedo chi tra i presenti non abbia mai bevuto. La maggioranza dei ragazzi extracomunitari, anche per questioni di religione, alza la mano… Successiva-mente chiedo chi consuma regolarmente alcol in famiglia durante i pasti e circa il 40 per cento risponde di sì. Poi chiedo chi si è ubriacato almeno una volta, il 70% confessa di averlo fatto… Quando però, come ultima domanda, chiedo chi si ubriaca una volta a settimana, almeno il 5% alza la mano. E lo fa in maniera fiera… A quel punto consiglio di cambiare immediatamente strada altrimenti avranno un destino segnato…

A quali scuole si rivolge?

Medie e superiori, anche perché, ahinoi, cominciano a bere già a 12 anni… Adesso ho iniziato a varcare anche i confini dell’Italia, vado in Svizzera e in Francia. Ho un lungo elenco di istituti da visitare, anche se la fatica inizia a farsi sentire… Solitamente i nostri incontri durano un paio di ore. A volte vado in scuole definite molto turbolente, ma dopo il primo impatto tutti assistono in rigoroso silenzio… Alla fine di ogni incontro sono convinto, e quindi soddisfatto, di aver gettato un seme, quantomeno di aver suscitato delle riflessioni. Ai professori, infatti, chiedo sempre di sondare gli studenti sui nostri incontri e le risposte che arrivano sono positive.

C’è una cosa su cui batte maggiormente?

Durante la mia lunga carriera di medico ho visto tanti ragazzi combattere contro il cancro o altre gravi malattie, anche genetiche. Quello che mi fa impazzire più di tutti, dunque, è che ragazzi sani e pieni di vita decidano di buttare via la vita in pochi secondi. Magari mettendosi ubriachi alla guida di un motorino, di un auto, oppure dopo una sfida tra amici… È assurdo, non posso e non voglio rassegnarmi. Buttare la vita in questo modo… Prima di farlo, dico loro: “Venite in ospedale a vedere quanti ragazzi della vostra età combattono coraggiosamente contro malattie, a volte inesorabili… Tra mille sofferenze fanno di tutto per restare aggrappati alla vita. Voi, invece, in un attimo decidete di farne a meno”.

Professor Fassati, dopo una vita trascorsa in sala operatoria non posso non chiederle un parere sul robot da Vinci. Può essere considerato una vera e propria rivoluzione nel mondo della chirurgia?

Assolutamente sì. E in un certo senso dimostra la limitatezza dell’uomo.

Perché? È stato sempre l’uomo a inventarlo…

Vero, però qualsiasi operazione fatta dal miglior chirurgo del mondo non è mai perfetta come quella realizzata dalla chirurgia robotica.

Quali sono i punti di forza?

Diciamo intanto che il chirurgo, fisicamente lontano dal campo operatorio e  seduto a una postazione con display e comandi, muove i bracci del robot, collegati agli strumenti endoscopici, che vengono introdotti mediante piccole incisioni. Il campo operatorio, poi, è proiettato in maniera tridimensionale, con immagini nitide e ad altissima risoluzione. È in grado di moltiplicare sino a dieci volte la normale visione dell’occhio umano, un qualcosa per nulla paragonabile all’intervento tradizionale. Ad esempio nel tumore della prostata rappresenta un ausilio incredibile. I nervi responsabili dell’erezione e della continenza urinaria, sottili come capelli, decorrono infatti sulla superficie della prostata e quindi, normalmente, sono difficili da vedere e da selezionare. Il robot, invece, attraverso la sua straordinaria visione consente di isolarli e quindi risparmiarli, assicurando così un’ottima qualità di vita.

Però a manovrarlo dev’essere sempre un chirurgo in carne e ossa…

E con le mani esperte… Assolutamente d’accordo, la presenza umana resta insostituibile. Senza dubbio, però, rappresenta un grandissimo aiuto per la chirurgia, ha quasi azzerato le complicanze postoperatorie. Tenga presente, ad esempio, che il movimento che il chirurgo imprime alle manopole è millimetrico e il braccio meccanico è più che fermo.

Quanto costa?

Circa 2 milioni e mezzo di euro, più i contratti di manutenzione che sono abbastanza onerosi, come anche i materiali monouso utilizzati nei singoli interventi. Ripeto, rappresenta un valido aiuto per il chirurgo che già sa fare molto bene il suo lavoro. Naturalmente, è bene ricordarlo, anche chi non si affida alla chirurgia robotica può stare tranquillo. La fiducia nei confronti della chirurgia tradizionale resta immutata. Prima di lasciarci, però, vorrei tornare brevemente sul problema alcol per riflettere insieme su un dato…

Prego…

La droga, per nostra fortuna, è proibita e sui pacchetti di sigarette c’è scritto che il fumo danneggia gravemente la salute. Le bevande a base di alcol, invece, compresi i superalcolici, possono contare su 3mila ore l’anno di pubblicità in televisione… Sarebbe bene, allora, che una società che si definisce civile riflettesse attentamente su questo dato…

 

 

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