PROBLEMI DI UNA GRANDE POTENZA IN ASCESA

la Cina protagonista nel mondo
By Angelo Paoluzi
Pubblicato il 11 Gennaio 2018

Con Pechino si devono fare i conti, specialmente dopo che tutto il potere è stato consegnato nelle mani di un uomo solo, Xi Jinping, presentato come il “nuovo Mao” e leader di un ambizioso “regno di mezzo”

Sulla scena del mondo la Repubblica Popolare Cinese oggi, inizio 2018, si fa avanti con decisione fra gli Stati Uniti in declino di prestigio, l’Unione Europea ancora incerta sul proprio destino, la Russia in un ruolo di grande-media potenza, l’India che, nonostante i progressi, paga la mancanza di un adeguato sviluppo sociale. Con Pechino si devono quindi fare i conti, specialmente dopo che, con il 19° Congresso del Partito comunista conclusosi lo scorso ottobre, tutto il potere è stato consegnato nelle mani di un uomo solo, Xi Jinping, presentato come il “nuovo Mao” e leader di un ambizioso “regno di mezzo”. Un regno che sta per arrivare fra noi principalmente attraverso “la nuova via della seta” di cui la Cina ha preso l’iniziativa, un intrico di comunicazioni ferroviarie e stradali con almeno sessanta paesi di tre continenti, Asia, Europa e Africa. Questo reticolo moltiplicherà gli scambi, l’interdipendenza economica e con essi l’influenza cinese a livello mondiale; alimentando timori circa le tentazioni di una possibile egemonia planetaria favorita dalla consistenza demografica (un miliardo e trecento milioni di abitanti, uno su cinque della terra), dallo sviluppo delle forze armate (è stato detto che “il futuro delle armi è cinese”, con il 2,5% del Pil destinato alle spese militari), da una crescita economica che, nel 2018, sarà ‘soltanto’ del 6,7 per cento, da un peso nella finanza internazionale che condiziona i bilanci di molti Paesi (compresi gli Usa, con svariati miliardi di dollari nelle riserve della Banca centrale di Pechino).

Ma quelle preoccupazioni sono attenuate dal fatto che la Cina ha di fronte una serie di problemi. All’interno il potere è confrontato con una diffusa corruzione (ogni anno sono diecine di migliaia i condannati, spesso alla pena capitale, per malversazioni e ruberie; e 1200 miliardi di dollari fuggiti all’estero). Segue la questione demografica: più di trentacinque anni, dal 1979 al 2015, di politica del figlio unico hanno invecchiato il paese, che si trova oggi a essere confrontato con una eccedenza crescente di anziani. C’è di più: ci sono 150 milioni di “senza nome”, cioè quei nati oltre il primo e non denunciati all’anagrafe, oggi massa di sfruttati a basso costo ma anche pericolosa miccia per le rivolte popolari – oltre mille in ognuno degli anni recenti – che insanguinano l’immenso paese e minacciano la stabilità sociale imprese statali e del sistema bancario obsoleto, le stridenti disuguaglianze sociali: tutto ciò compensato dal miracolo di 700 milioni di persone uscite dalla miseria in sessant’anni e nella visione, promessa da Xi Jinping, di una società “moderatamente prospera” a venire, con altri 60 milioni di cittadini strappati al bisogno nel prossimo quinquennio. Ma la Cina, se non cambiano i criteri di gestione usati sino a oggi, sarà – si è detto – “vecchia prima di essere ricca”, vanificando lo sviluppo di cui è stata protagonista.

Il rischio per Pechino sta nell’assumere una logica di grande potenza senza aver risolto i problemi interni. Come quelli delle minoranze oppresse: i musulmani del Sinkiang, gli abitanti del Tibet annesso con la forza, le opposizioni democratiche di Honk Kong; e delle componenti religiose, negli ultimi anni riemerse con rinnovato vigore. Xi Jinping, nel discorso di tre ore che ha aperto il congresso del PC, ha toccato questo tasto in modo non consueto, insistendo sulla necessità che, per avere diritto di cittadinanza, i culti riconosciuti (buddismo, taoismo, islamismo, cattolicesimo e protestantesimo) si “cinesizzino”. Non è un mistero che dal giugno del 2014 sono in corso contatti diplomatici fra Pechino e Santa Sede in vista di possibili soluzioni nell’interesse comune, come ha auspicato il nuovo arcivescovo di Hong Kong, monsignor Michael Yeung. Egli ha detto che il papa ha tutte le ragioni per diffondere il Vangelo in Cina, ma non a fini politici, aggiungendo che “Gesù Cristo non ha mai chiesto ai suoi discepoli di battersi contro l’impero romano”.

E resta il nodo dei rapporti con i riottosi vicini, praticamente tutti, per la sovranità su isole e scogli sparsi nel Pacifico meridionale che ognuno rivendica per sé. Difficile da sciogliere in presenza di un annoso nazionalismo che fa parte del dna cinese, con la rivendicazione senza discussioni dell’appartenenza di Taiwan, tutt’altro che disposta, dal canto suo, a farsi annettere dalla Repubblica Popolare. Senza contare le tensioni che ribollono in Africa per una politica di penetrazione (un milione di cinesi si sono istallati nel continente) che sa tanto di neocolonialismo e suscita malcontenti e rivolte. Ci si chiede se questo sarà il secolo della Cina. Sarà necessario qualche decennio per avere una risposta.

 

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