GLI AFFARI DI MORTE

By Angelo Paoluzi
Pubblicato il 3 Maggio 2015

Nel mondo c’è un giro d’affari, attorno al commercio delle armi, da 1750 miliardi di dollari all’anno (con tendenza all’aumento), più del prodotto interno lordo italiano. E dove ci sono armi c’è distruzione e morte. Per questo papa Francesco ritorna spesso sull’argomento, denunciando l’intrinseca malvagità della situazione. In un passo dell’ultimo messaggio di Pasqua “urbi et orbi” ha detto: “E pace chiediamo per questo mondo sottomesso ai trafficanti di armi che guadagnano con il sangue degli uomini e delle donne”.

Ricordiamo un’altra accorata apostrofe, del giugno 2014: “I corrotti, coloro che fanno la tratta degli schiavi e i fabbricanti di armi che sono mercanti di morte dovranno renderne conto a Dio”. E ancor prima riferendosi nel settembre 2013 al conflitto in Siria, si chiese addolorato: “Sempre rimane il dubbio se questa guerra di qua e di là è davvero una guerra o è una guerra commerciale per vendere queste armi, o è per incrementare il commercio illegale”; concludendo con un vigoroso: “No al commercio e alla proliferazione delle armi”.

Condividere l’indignazione, però, non basta. Come cittadini italiani dovremmo chiedere ai nostri rappresentanti al parlamento (anche a quelli che si agitano per ricavarne profitti propagandistici e che sembrano indifferenti all’argomento in questione) se hanno letto l’ultimo rapporto governativo dedicato agli armamenti, pretendendo di sapere perché nessuno abbia sollecitato un dibattito pubblico sull’argomento.

Se non altro in quanto il nostro paese è il principale esportatore di armi leggere assai apprezzate, quelle cioè maggiormente e facilmente utilizzate e che sono praticamente responsabili degli stermini di massa. Bisognerebbe poi domandarsi perché una partita di quelle armi (ufficialmente a suo tempo di-strutta) sia stata inviata ai curdi, mentre la legge italiana vieta di vendere o fornire ordigni bellici a paesi in guerra: non è sufficiente la giustificazione che esse servano a combattere i terroristi del Califfato, visto che l’Italia è firmataria di un accordo che ne limita la diffusione.

E così è una specie di beffa l’entrata in vigore, nel dicembre 2014, del trattato voluto dall’Onu sul controllo del commercio delle armi, anche perché esso non è stato sottoscritto da Stati Uniti, Russia, Cina, India, Pakistan, che sono fra i maggiori venditori e acquirenti. Per le esportazioni, sono in testa gli Usa, con 21 miliardi di dollari, seguiti dal-la Russia con 10, dalla Francia con 4,9, dall’Inghilterra con 4,1, dalla Germania con 3,5; e al nono posto troviamo l’Italia con 1,9. In un festival finanziario che – sulla pelle del-le vittime – assicura enormi profitti e in cui le banche svolgono un ruolo fondamentale.

Nessuna meraviglia, quindi, se si scopre che l’Arabia Saudita (protagonista oggi di una vera e propria guerra nello Yemen) nel 2014 ha comprato materiale bellico per 6,5 miliardi di dollari, con un aumento del 54% sull’anno precedente, e si appresta a sfiorare nel 2015 i 10 miliardi di acquisti, cioè +52%: in complesso spese superiori all’intera Europa, con mezzo miliardo di abitanti, e all’India, con una popolazione ben oltre il miliardo, mentre i sauditi sono appena trenta milioni.

Si capiscono quindi le ragioni dell’espansione dei conflitti in Medio Oriente (anche i minuscoli Emirati arabi non lesinano negli acquisti: 2,2 miliardi di dollari) e i motivi per cui si allarghino le prospettive di stragi, distruzioni e vittime innocenti. Perché, là do-ve ci sono armi, si continua a sparare.

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