RENZI E L’ULTRASINISTRA

La decisione che ha consacrato Nelson Mandela uno dei grandi leader morali e politici del nostro tempo è stata quella di rifiutare la vendetta istituzionale in Sud Africa dei neri sui bianchi, chiesta dalla sinistra estrema marxista del suo partito, dopo la fine del regime di segregazione razziale. I socialdemocratici tedeschi sono diventati una grande forza di governo dopo che nel 1959 hanno abbandonato, senza riserve, l’ideologia marxista, e il neutralismo che, sino ad allora, aveva ispirato la loro collocazione rispetto al confronto mondiale tra le democrazie e il totalitarismo sovietico. In Italia, dal 1945 al 1989 il Pci ha costituito il polo alternativo, politico ed elettorale, alla Dc (ma è stato anche forza di governo) perché ha saputo marginalizzare e devitalizzare i tentativi di frazioni interne e di gruppi esterni (dal Manifesto ai movimenti guidati da Lucio Magri e da Livio Labor) di trascinarlo su un terreno di estremismo ideologico, sostanzialmente autoritario in campo economico, moralistico, di stampo veteroclassista ed egualitario, lontano dalle dinamiche e dalle aspirazioni che in quegli anni erano alla base dell’eccezionale progresso civile e sociale del paese.

Sono tre esempi ai quali (ovviamente considerando ragioni e specificità degli stessi) dovrebbe guardare con attenzione Matteo Renzi, eletto in modo convincente segretario del Pd. Credo infatti che la priorità assoluta, tra le tante, a cui deve far fronte, sia quella di attrezzare il Pd (nelle idee, nei programmi e nel modo di essere e di operare) per respingere gli attacchi che gli porterà il movimento di Grillo e di Casaleggio in forme sempre più spregiudicate e demagogiche. Esso infatti è nato e si è affermato elettoralmente soprattutto per i contenuti ispiratori e per i comportamenti tipici delle formazioni dell’ultrasinistra di ispirazione marxista, oggi aggiornate e potenziate nel mondo dalla forza e dalle suggestioni di internet. Ed è quindi logico che da sempre il M5S abbia quale obiettivo la dissoluzione del Pd perché, giustamente, lo considera in parte espressione di ceti (sociali e anagrafici) potenzialmente sensibili alle idee e agli obiettivi d’ultrasinistra di cui il Movimento è portatore. E che pertanto dalla dissoluzione del Pd potrebbe diventare la forza politica dominante del paese.

L’appello di Grillo alle forze dell’ordine e all’esercito perché si schierino contro le istituzioni si ispira a Lotta continua e Potere operaio che, negli anni ’70, sono stati le matrici del terrorismo di sinistra. Su questo punto, l’11 dicembre la risposta a Grillo di Letta in parlamento è stata chiarissima e durissima, ma non è tutto. Il M5S, infatti, è per la democrazia diretta del popolo, guidata da minoranze illuminate (che è stata nel secolo scorso componente essenziale dei totalitarismi di sinistra e di destra) contro la democrazia rappresentativa dei parlamenti. È per la istituzionalizzazione di tutti i cosiddetti “diritti civili” anche quando essi distruggano la famiglia, cellula prima della società, e feriscano l’essenza della persona. È per il “tutti uguali” economicamente, anche se verso il basso, da realizzarsi attraverso il controllo diretto da parte dello “stato popolare” delle essenziali attività produttive e finanziarie del paese. È contro l’Unione Europea perché dominata dai banchieri; contro “il dominio americano sul mondo”; contro Israele perché gendarme dell’America in Medioriente e per l’atomica iraniana. Rife-rendosi ad alcuni di questi elementi qualificativi del Movimento, Renzi ha fatto intendere in più di una occasione che ha consapevolezza dei suoi obiettivi, e della necessità per il Pd di comportansi in modo conseguente. Ma nella congiuntura politica, economica e sociale in cui siamo, la reazione deve essere immediata, chiara e coraggiosa.

Dunque senza indulgenze tattiche nei confronti del M5S, che finirebbero sempre per tornare a vantaggio di Grillo e di Casa-leggio. A cominciare dalla questione della riforma della legge elettorale. Perché qualsiasi coinvolgimento condizionante del Movi-mento nella scelta del nuovo sistema, comporterebbe per i partiti democratici (a cominciare dal Pd) un costo altissimo già nella tornata elettorale per le europee di primavera, e in quella, auspicabilmente nel 2015, per il rinnovo del parlamento.