LA PIENEZZA DI GIOIA

By Mons. Antonio Riboldi
Pubblicato il 3 Settembre 2016

Credo possa aver dato un certo “fastidio” a Gesù, il fatto di vedersi seguito da molta gente, troppa, e non per il fatto che lo seguissero, questo semmai poteva, come potrebbe essere oggi, l’occasione di annunciare la sua parola, ma perché sapeva che inseguivano in lui sogni mai realizzati, speranze sempre andate deluse, sicurezze mai trovate, solitudini non più sopportabili: il sogno, insomma, di un “piccolo paradiso” a misura d’uomo, che non riusciva ad oltrepassare i confini stretti di questa terra, così avara di felicità, per andare oltre, alla ricerca del regno di Dio, dove ha sede l’unico totale e fedele amore, e con esso la vera felicità e la vita. Quello, insomma, che ogni uomo cerca – anche se non lo sa – e di cui ha spesso una inconfessata sete. Gesù taglia corto con queste speranze solo umane, che tante volte affondano le radici nell’effimero, proclamando invece la sua legge, che è regola di santità, regola di vita eterna, di autentici rapporti con Dio e con il prossimo. Usa un linguaggio che ancora oggi fa venire i brividi, ma che in compenso ha il dono della chiarezza della vera amicizia. Racconta il Vangelo: “Siccome molta gente andava con lui, Gesù si voltò e disse: Se uno viene a me e non mi ama più di suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli e le sorelle e persino più della propria vita, non può essere mio discepolo… Chi di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo. (Lc. 14, 25-33)

Parole che forse saranno suonate come una sferzata per molti che, senza tagliare nettamente i ponti con se stessi, avevano comunque abbandonato i loro cari, ma pronti a tornare indietro se le speranze, poste in quel misterioso Maestro, non si fossero avverate. Non è che Gesù chieda di non amare i nostri cari o di possedere qualcosa su questa terra… ma chiede di avere il primo posto nel nostro cuore e nella nostra vita. E aveva e ha ragione. Solo con lui è possibile amare senza voler possedere l’altro o avere, restando distaccati così che le cose non diventino idoli. Purtroppo ci sono tanti che si dicono di Cristo, ma Lui non è al centro della loro vita, perché prima, come valori sovrani, vengono il possesso delle cose, le tante ambizioni, i tanti interessi, il proprio io.

Quando ero adolescente, dopo una prima provocazione, giunta dal cardinal Schuster, che mi aveva chiesto – senza avere una mia risposta – se volevo diventare prete, lentamente prese forma il mio sogno. In un secondo incontro, alla richiesta di cosa volevo fare di grande, prontamente risposi: “Il prete!”. Sorrise di tanta semplicità. Ma quando a dodici anni mi decisi a entrare in quello che si chiamava aspirandato, presso i padri rosminiani, mi sentii solo, senza più i miei cari, le mie cose e mi assalì un grande dolore e un desiderio smisurato di tornare a casa, come se senza la mia famiglia la mia libertà fosse spenta. Vissi un mese di continua sofferenza, ma ringrazio Dio che lentamente mi aiutò a resistere. Da allora ho capito cosa volesse dire lasciare tutto e mettere al primo posto l’amore di Dio.

Non che i miei cari non occupassero più un grande posto nella mia vita, sempre, ma il primo posto era di Dio, al quale davvero avevo dato tutto. Non è certamente facile per un uomo, una donna, un giovane vivere la propria esistenza mettendo al primo posto il Signore. Amo sempre ricordare mia mamma, che, nonostante la fatica di raggiungere la chiesa di primo mattino, lontana da casa, non passava giorno senza avere dato il primo posto a Gesù eucaristico, ricevendo la santa comunione.

Credo che non abbia stupito nessuno la canonizzazione di santa Madre Teresa di Calcutta: donna del nostro tempo, tutta donata ai più deboli. Una vita da testimone che le parole di Gesù non sono solo la via alla porta stretta, ma sono soprattutto il segreto di una vita armoniosa, virtuosa, piena, sulle orme e alla presenza di Dio. Ma sono tante le persone che vivono da sante: persone normali, che sanno mettere al primo posto Dio e la santità. Nella mia vita pastorale ne ho incontrate tante. Come quella anziana vedova, dal volto emaciato, che una sera, dopo una predica, venne in sacrestia e mi consegnò tutto quello che aveva e teneva “per la sua vecchiaia”: 500.000 lire. Chiedendole la ragione di questo suo gesto, mi rispose: “Tenerli è un furto rispetto a chi ne ha bisogno. A me basta Gesù e il suo amore. Lui penserà a tutto, io penserò solo a lui”. Cara donna! Mi commosse e, senza volerlo, mi mise in crisi. Tutte queste persone – ripeto sono tante – mi hanno sempre lasciato la lezione di cosa voglia dire amare lui più di se stessi e che questa è la via per quella serenità di cui tutti abbiamo bisogno e che, troppe volte, perdiamo per rincorrere un amore disordinato alle persone o alle cose, che certamente non offre la gioia che solo Gesù può donare. È difficile tutto questo? Per chi ama veramente Dio e fa dell’amore il senso della propria vita, no. Ma per chi si lascia prendere la mano – meglio il cuore dalle creature o cose del mondo, che è poi mettere al centro se stessi e il proprio egoismo – appare impossibile.E non è una soluzione vera dividere il cuore tra l’amore di Dio e l’amore delle cose! Senza contare poi che, quando si ama Dio, integralmente, anche nella vita semplice e quotidiana, si riesce a donare amore a tutti, cominciando dai più vicini, e tutto acquista senso. Davvero amare è liberarsi da se stessi  la più terribile schiavitù. E se questo è vero tra di noi, quanto più è vero verso Dio. Questo Vangelo può sembrare difficile, ma è, se capito e vissuto davvero, la buona novella del regno dei cieli: è serenità e libertà, pienezza di vita e di cuore. Non resta che farla propria, anche se va contro corrente, rispetto alle pretese del nostro ego e agli “insegnamenti” del mondo. Ma la Grazia sa aprire cuore e mente a chi ha buona volontà.

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