SULLE STRADE DI DON LORENZO MILANI

By eraldo affinati
Pubblicato il 10 Maggio 2016

Siamo lieti di ospitare in questo numero Eraldo Affinati, scrittore e insegnante di successo. Nel suo ultimo libro il fondatore della scuola gratuita di italiano per immigrati Penny Wirton, ripercorre magistralmente le strade della breve e fulminante avventura del prete degli ultimi. Scopriamo, allora, come l’autore si avvicina a questa figura di riferimento per il cattolicesimo socialmente attivo. Il volume, tra l’altro, è tra i dodici in gara per il prestigioso Premio Strega.

Credo che L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani (Mondadori, pp.177, euro 18,00) sia nato ben prima di essere stato scritto: è come se lo avessi sempre avuto dentro. Non sonnecchiava soltanto negli occhi di Romo-letto, quando lui imprevedibilmente alzava la mano per rispondere alle domande che io ponevo e, così facendo, lasciava intravedere il cinturone con il teschio stretto sui suoi fianchi esili. Certo, si stava formando anche nella furia di Valerio nel momento in cui voleva entrare in classe sempre alla seconda ora, sebbene glielo avessimo vietato. Il testo era già presente, seppure in potenza, nella dolcezza di Fulvio, nella malinconia di Omar, nella rabbia di Mohamed, nella strafottenza di Ismail.

Ma tutto ciò non è sufficiente a dire perché è diventato così com’è. Intendiamoci: guai se non pensassi che quest’ultimo tomo, diciassettesimo della serie, concepito alla maniera di un reportage riflessivo sui luoghi che videro l’azione educativa del priore di Barbiana e dei suoi inconsapevoli seguaci sparsi oggi in ogni parte del pianeta, non sia cresciuto alla maniera di una pianta rampicante sulle pareti scrostate della mia ormai trentennale consuetudine coi cosiddetti ragazzi difficili, italiani e immigrati; tuttavia devo ammettere che, per fornire una spiegazione più esauriente, meno tecnica, più autentica, al tema di questa rubrica, sono costretto a risalire a molto tempo prima del mio ingresso nella scuola come insegnante di lettere negli istituti professionali per l’industria e l’artigianato.

Posso azzardare ancora di più? Per motivare la forma che l’opera ha preso – pellegrinaggio, breviario interiore, indagine conoscitiva – non mi basterebbe nemmeno tirare in ballo l’Eraldo bambino che giocava coi soldatini di gomma sul pavimento dalle mattonelle color sale e pepe in un condominio anonimo e triste nella solitudine atroce che può riservare una grande antica città del ventesimo secolo. è vero che la struttura portante del lavoro possiede una radice intima, strettamente legata alla mancanza di interlocutori che ho sperimentato da adolescente e rispetto alla quale spesso reagisco: dieci capitoli scritti in seconda persona, scorporato da me stesso, restando comunque a breve distanza, in stile esame di coscienza, a partire dai luoghi più rappresentativi del personaggio scelto, intervallati da altrettante risonanze recuperate dai miei diari di viaggio intorno al mondo. È altrettanto indubbio che il sentimento di estraneità da me talvolta provato nei confronti del romanzo, come genere letterario, deriva dal tentativo, ovviamente destinato al fallimento, di rifondare l’esperienza, il cui senso mi appare oggi, nella realtà digitale in cui siamo immersi, sempre più compromesso.

Ma questa è la foce del fiume, non la sorgente. Per risalire la corrente e gettare un po’ di luce sul libro che ho dedicato a don Lorenzo Milani, prete degli ultimi e straordinario italiano, tante volte citato ma spesso frainteso, dovrei parlare, ancora una volta, dei miei genitori, entrambi orfani che avevano fatto soltanto la quinta elementare, l’una sfuggita ai lager tedeschi, l’altro costretto a vivere per conto suo a dodici anni, neanche fosse un monello di Charles Dickens. Se pretendessi di toccare con mano le nervature della pianta da cui è scaturito questo libro, potrei evocare i giorni senza parole della loro esistenza scheggiata e mai più ricomposta prima ancora del desiderio di risarcimento che mi spinse a diventare scrittore ed accettare le iniziali supplenze, quasi intendessi esercitare una responsabilità disattesa. E chissà, magari non basterebbe. Dovremmo chiamare in causa i nonni: quello materno, fucilato dai nazisti, e quello paterno, dissolto nel nulla, mai conosciuto.

Ecco la ragione per cui mi sono avvicinato al priore: nella sua rivoluzione interiore, nella lacerazione dei tessuti spirituali da lui compiuta per diventare pienamente se stesso, ho percepito qualcosa che mi toccava nel profondo. Era il richiamo al quale Buck non riesce a sottrarsi quando arriva in prossimità del bosco: una sostanza atavica, il segno numinoso che la scrittura autobiografica prima capta e poi fa proprio.

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