“VOGLIO FINALMENTE UNA VITA GIUSTA”

IMMIGRATI IN ITALIA
By Ciro Benedettini
Pubblicato il 2 Giugno 2017

Abbiamo incontrato alcuni immigrati che hanno chiesto lo status di rifugiati, che li equiparerebbe ai cittadini italiani. Le loro storie perché può essere salutare metterci per una volta nei loro panni. “Sulla crisi migratoria l’Italia ha salvato e salva l’onore dell’Europa”

Continuano ad arrivare gli immigrati in Italia. Anzi il loro numero aumenta. Continuano anche a morire nonostante le navi di Frontex e una schiera di volontari scaglionati in Mediterraneo per salvarli. Proseguono pure le polemiche e crescono i problemi. Il 5 maggio scorso il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Junker, ha detto: “Sulla crisi migratoria l’Italia ha salvato e salva l’onore dell’Europa”. Meglio tardi che mai. Ma non sarebbe ora che alle parole seguissero i fatti?

Comunque la si pensi, per una volta vorremmo invitare i lettori a guardare il fenomeno delle migrazioni non dal nostro punto di vista, ma da quello degli emigrati. Mettersi nei loro panni, almeno per un attimo. E per questo siamo andati ad incontrarne alcuni nel CAS (Centro di Accoglienza Straordinaria) di Basciano, un paesino di scarsi 3 mila abitanti in provincia di Teramo. Avevamo conosciuto alcuni di questi emigrati il giovedì santo, quando 12 di loro si erano prestati al ruolo di apostoli nel rito della lavanda dei piedi nel santuario di San Gabriele. Le loro storie forse non sono le più rappresentative e nemmeno le più drammatiche, ma possono essere salutari.

Jambo cammina con le stampelle: la gamba destra è amputata sotto il ginocchio. “Vengo dal Gambia – inizia -, ho 21 anni, sono cristiano. Mio padre era soldato e anch’io seguivo la sua carriera. Durante il tentativo di colpo di stato del 2014, la guarnigione dove era mio padre è stata attaccata e sono stati uccisi tutti. ‘Fuggi, altrimenti ammazzano anche te’, mi ha gridato mia madre. Sono partito con alcuni amici per il Senegal e da lì attraverso il deserto sono giunto in Libia, a Tripoli. La polizia mi ha subito arrestato senza alcun motivo e detenuto per 8 mesi. Un giorno sono riuscito a fuggire, ma mi hanno scoperto e mi hanno sparato alla gamba destra. Qualcuno mi ha aiutato, portato in ospedale e poi mi ha fatto salire su di un barcone sul quale eravamo in 140. Sono stato fortunato perché non abbiamo avuto gravi problemi durante la navigazione e sono riuscito a raggiungere la Sicilia.

Seku, 27 anni, è fuggito dal Mali. “Questa è la mia storia. Mio padre era consigliere del sindaco nella città di Tanbagara e in tale veste aveva sensibilizzato i cittadini sul dovere di pagare le tasse per avere strade, scuole, acqua… Molti pagarono, ma delle promesse di miglioramento della città neanche l’ombra. Evidentemente il sindaco aveva impiegato i soldi per i propri interessi. Infuriati i cittadini circondarono la casa del sindaco e dettero fuoco all’abitazione. Mio padre venne arrestato. Sono subito fuggito nel vicino Senegal. Non conoscevo nessuno, dormivo all’aperto. Sono poi riuscito ad arrivare in Algeria dove ho lavorato 5 mesi, ma mi hanno pagato solo il primo mese. Mi sono unito a coloro che cercavano di partire per la Libia, dove dopo appena tre giorni sono stato arrestato da una milizia locale, che mi ha portato in prigione e mi faceva uscire solo per andare a lavorare per loro, senza mai pagarmi. Dopo sei mesi mi hanno detto che mi avrebbero trasferito in un’altra prigione e, che se non avessi pagato, mi avrebbero ucciso. Poi mi hanno portato in una località vicino al mare, che vedevo per la prima volta. Persone armate mi hanno spinto su di un barcone senza sapere nemmeno dove fosse diretto. Durante il viaggio mi ero appisolato un attimo e risvegliato da un incubo: un grande pesce inghiottiva tutta la barca con le persone”.

Perché ti hanno spinto sul barcone? “Non lo so, né sapevo di essere sbarcato in Sicilia”. Sono 8 mesi che si trova nel CAS di Basciano in attesa di essere eventualmente riconosciuto come rifugiato. Sua madre è morta, il padre forse è ancora in prigione. In Mali ha lasciato la moglie e due figlie, delle quali non ha più notizie da quando ha lasciato l’Algeria. Cosa vuoi fare in Italia? “Qualsiasi lavoro, voglio finalmente una vita giusta”.

Mi ha lasciato perplesso la risposta che alcuni non avrebbero pagato gli scafisti per la traversata, dando una sia pur piccola patente di umanità a queste persone che invece la letteratura vuole spietati e assetati di soldi. Ne ho parlato con Inza Keita, il mediatore culturale, africano, profugo e rifugiato egli stesso.

Questa la spiegazione abbastanza complessa. è fuori dubbio che gli scafisti, o meglio i loro capi, approntano le traversate per soldi e che ricorrono anche alla tortura fisica e psicologica per costringere la gente a procurarseli. Ma è anche chiaro che molti non sono in grado di pagare, inutile torturarli. Mi fa notare tuttavia che indirettamente quasi tutti hanno pagato perché, chi per 6 mesi, chi più a lungo, è stato sottoposto ai lavori forzati (come muratori, contadini, addetti alle pulizie, eccetera). Coloro che arrivano sulle coste libiche sono talmente tanti che è necessario “sfoltirli”, operare una specie di turnover. Rinviarli nei loro paesi di origine impossibile, più facile costringerne alcuni su di un barcone con il risultato, per quanto cinico, garantito: o in fondo al mare in pasto ai pesci o comunque fuori dai piedi. Il ricambio degli emigrati in Libia è “opportuno” anche perché dopo mesi di lavori forzati e cibo scarso i migranti sono deboli, servono nuove energie, che non mancano. I locali temono anche che, se i migranti in attesa della traversata fossero troppo numerosi, potrebbero organizzarsi, tentare rivolte e diventare un pericolo per la sicurezza dei cittadini locali. Qualcuno ipotizza anche un’azione organizzata per destabilizzare l’Italia che è il Paese in prima linea.

Inza Keita, il mediatore culturale, è un ragazzo di 24 anni, musulmano. Parla francese, inglese, arabo e conosce una miriade di dialetti dell’Africa subsahariana. è molto stimato dai gestori del Centro e anche dai “ragazzi”. Noto subito l’empatia con la quale ascolta e parla con loro.

Anche lui è stato un migrante, partito dalla Liberia, suo paese natale, che ha attraversato 14 anni di guerra civile, durante i quali intervennero i soldati americani, che portarono alcuni bambini al sicuro nella vicina Guinea, dove il nostro venne adottato da una ricca famiglia locale. Il padre adottivo, 16 figli naturali, coinvolto in una guerra tribale, lo aiutò a fuggire in Mali. Da qui passò in Libia, che, al tempo di Gheddafi, dava lavoro a molti africani, i quali invece erano arrestati dopo la caduta del dittatore. Infatti, Inza fu preso e costretto a fare l’imbianchino, pur esibendo documenti che dimostravano la sua buona formazione culturale. Successivamente fu spostato a Tripoli. Chiuso con altri 23 compagni in un camion frigorifero si ritrovò al mare dove erano i barconi in partenza per l’Italia. Costretto a salire su di un barcone, dopo 6 giorni in mare e tre colleghi di traversata morti, si è ritrovato in Sicilia.

Lamine, 28 anni, è fuggito dalla Guinea-Conakri. è un tecnico informatico, era benestante con moglie e figlio e la madre che abitava con lui. La tribù cui apparteneva era vicina al presidente eletto, ma gli oppositori volevano coinvolgerlo nelle manifestazioni di ogni giovedì contro il governo. Lui ripeteva: “Non mi occupo di politica, penso solo al mio lavoro”. Ma loro dalle parole passarono ai fatti. Incominciarono a lanciare sassi contro chi non partecipava, a bloccare le strade dove abitavano, danneggiare le loro auto. Un giorno un sasso colpì sua madre alla testa. Quando riuscì a portare la madre all’ospedale era ormai senza vita. Gli oppositori gli fecero arrivare il messaggio “Volevamo uccidere te non tua madre”. La moglie terrorizzata gli diceva: “Se dicono che vogliono ucciderti presto o tardi lo faranno. Non mi sento sicura, voglio tornare dalla mia famiglia”, ma lui non voleva abbandonare la casa del padre. Il giovedì seguente, tornando dal lavoro, trovò di nuovo la casa circondata. Si nascose presso un amico, che lo implorò: “Devi fuggire. Hanno ucciso già tua madre, adesso uccideranno te”.

Lamine decise di andare in Mali dove, essendo un professionista, pensava di trovare facilmente lavoro, che invece non trovò. Dormiva alla stazione dei pullman, mendicava il cibo. Con un amico cercò di dirigersi verso la Libia. Impiegò un anno intero, passando per Niger e Burkina Fasu. In Libia venne subito arrestato da una milizia privata. Lo fecero lavorare, ma senza paga. Quando protestò per la mancata retribuzione del lavoro, il padrone chiamò i fratelli che armati lo portarono in un’altra prigione privata. Qui venne picchiato più volte. Con sua sorpresa un giorno fu trasferito vicino al mare e messo su di un barcone che ospitava 150 persone, strette come le acciughe. Il viaggio fu lungo, un incubo. Gli chiedo: “Avevi progettato di venire in Italia? Avevo solo in mente di uscire dal mio paese e mettermi al sicuro”.

Christian viene dal Camerun. Ha i capelli acconciati in piccole trecce che si ergono verso l’alto. La cosa mi incuriosisce e gli chiedo quanto tempo ha impiegato per questo risultato. “Due anni – risponde – ma non ho fatto niente, ho solo atteso che i capelli crescessero”. Racconta: “Mio padre è morto quando avevo due anni. Gli zii paterni volevano farmi diventare uno stregone, iniziarmi alla magia nera, come era tradizione per il più piccolo della famiglia. Mia madre si oppose. Quando avevo 8 anni, una maledizione lanciata dalla famiglia degli zii paterni mi causò una strana malattia: pancia gonfia all’inverosimile, non potevo nemmeno mangiare”. Due mesi all’ospedale, ma la guarigione l’attribuisce soprattutto alla preghiera della chiesa. Cambiò villaggio e trovò lavoro, pur sempre perseguitato dalla paura di qualche nuova stregoneria, di essere ucciso. Guadagnati un po’ di soldi, partì per la Nigeria, dove rimase 10 giorni, poi 2 settimane in Niger, 7 mesi in Algeria, lavorando come aiuto muratore. Infine approdò in Marocco, dove dormiva e mangiava all’aperto, usando come pentola i bidoni della vernice. Dal Marocco pensava di poter andare in Spagna. Ma venne arrestato e picchiato dalla polizia. Ritornò in Algeria. Un compagno africano gli disse che era meglio andare in Libia dove un suo amico l’avrebbe aiutato a partire per l’Italia.

Dopo 6 mesi, fu intercettato da una polizia privata, in realtà dei banditi, chiuso in una stanza senza finestre, nessuna possibilità di uscire nemmeno per i bisogni corporali, quasi ogni giorno picchiato perché si procurasse i soldi. Riuscì a fuggire. Dopo qualche chilometro incontrò una persona alla quale raccontò la sua storia e gli chiese di essere portato dove stavano i fratelli africani. “Ti ci porterò – fu la risposta, – ma prima devi lavorare tre mesi per me. Mio fratello manda gli africani in Italia”. Mantenne la promessa. Otto ore di navigazione, con il barcone bucato e i buchi tamponati con le proprie vesti, mentre altri gettavano fuori l’acqua che si accumulava nel fondo della barca.

Silla è nato nel Mali, abbandonato piccolissimo davanti a una chiesa nel 1991, adottato dalla comunità dei fedeli. è cresciuto e vissuto accanto alla Chiesa. Ormai giovanotto una ragazza s’invaghì di lui, che dopo qualche resistenza, cedette e la ragazza restò incinta. La storia così divenne pubblica e la ragazza dovette dire con chi era stato. Il pastore della chiesa lo difese, ma la comunità dei fedeli era infuriata perché – dicevano – aveva mancato di rispetto alla loro cultura e alla religione. Un giorno, di ritorno dal lavoro, un gruppo di ragazzi gli tira le pietre e lo picchia, lasciandolo mezzo tramortito. Trasportato dalla polizia in ospedale, il pastore nuovamente lo difese, ma non riuscì a calmare la gente. Allora gli diede un po’ di soldi e lo invitò a fuggire.

La prima tappa fu in Algeria dove lavorò come muratore. Il datore di lavoro si rifiutò di pagarlo. Andò dalla polizia che rispose: “In Algeria non c’è una legge che obbliga un cittadino a pagare uno straniero”. Appena arrivato in Libia venne subito arrestato dalla polizia locale e obbligato a lavorare come muratore per 3 mesi. Poi venne portato in un luogo vicino al mare, che vedeva per la prima volta e gli incuteva paura. Costretto a salire su di un barcone, presero il largo senza nemmeno una scorta di cibo e acqua potabile. Tre persone morirono. Una nave belga li soccorse dopo 3 terribili giorni in mare aperto.

Koforugui, 23 anni, racconta: “Vengo dal sud-ovest della Nigeria. Sono musulmano, ma non terrorista né razzista. Mio padre è musulmano e mia madre è cristiana e vivono insieme. Nel mio stato la cultura occidentale è molto apprezzata. I miei genitori sono anziani, ho due fratelli e una sorella. Mio fratello maggiore faceva l’autista di camion e quando potevo mi piaceva andare con lui. Un giorno, nel Nord della Nigeria, siamo stati attaccati dai guerriglieri di Boko Aram, un gruppo musulmano fondamentalista, quasi uno stato nello stato, nemico della cultura occidentale, feroce contro i cristiani (molte le scuole e le chiese cristiane bruciate, ndr). La proposta: unitevi a noi o vi uccideremo. Mio fratello fece notare la loro incongruenza: siete contro la cultura occidentale però usate le automobili, i cellulari. Con un amico sono riuscito a fuggire in Libia. ‘Bloody place Libya’ (la Libia è un luogo maledetto), – dice-, rubano soldi, cellulari, picchiano, costringono a lavorare senza pagare, uccidono anche senza motivo. In effetti venne arrestato. Un giorno, forse perché hanno capito che non avevo modo di pagare, mi hanno portato in riva al mare e messo su di un barcone. Dopo un’ora di navigazione gli scafisti hanno staccato e portato via il motore e con un piccolo gommone sono tornati in Libia, lasciandoci in balia del mare. Per fortuna siamo stati soccorsi da una nave dopo appena 40 minuti”.

Nel CAS di Basciano vi sono anche 29 giovani del Bangladesh. Mohaimed mostra una vistosa cicatrice che percorre tutto il dorso della mano destra. Il partito che aveva eletto il nuovo presidente lo voleva arruolare, ma lui non se la sentiva di cambiare bandiera. Per tutta risposta hanno tentato di tagliargli la mano, con un avvertimento: la prossima volta ti uccidiamo. Suo padre lo spinse a partire. In aereo arrivò in Turchia. Dalla Turchia in Libia, dove dopo Geddhafi non si riusciva più a trovare lavoro. Ha chiesto i soldi alla famiglia, ha pagato mille dollari per un posto su di un barcone ed è partito per l’Italia.

Queste alcune delle storie, raccolte così come ci sono state raccontate.

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