UN’ITALIA DA PRENDERE O LASCIARE…

Un Paese tra immigrazioni e migrazioni
By Gino Consorti
Pubblicato il 30 Novembre 2022

L’ODISSEA DI GENTE COSTRETTA A RESTARE PER SETTIMANE IN MARE IN CONDIZIONI PRECARIE IN ATTESA DI UN GESTO UMANITARIO E IL FENOMENO CHE VEDE SEMPRE PIÙ I NOSTRI GIOVANI “FUGGIRE” ALL’ESTERO. NE PARLIAMO CON IL PROFESSORE MAURIZIO AMBROSINI, DOCENTE DI SOCIOLOGIA DELL’AMBIENTE E DEL TERRITORIO ALL’UNIVERSITÀ DI MILANO

Le cronache delle ultime settimane hanno riempito giornali e tv di notizie e immagini sul fenomeno dell’immigrazione. In particolare l’odissea di un migliaio di persone disperate costrette a restare per giorni sulle imbarcazioni in attesa di un gesto umanitario. Lo stucchevole e penoso rimpallo di responsabilità e competenze riguardo gli sbarchi e le possibili violazioni delle norme è passato, come spesso accade, sulla testa di gente indifesa, fragile, in fuga dalla povertà, dall’emarginazione, dalle violenze, dai conflitti armati, dalle carestie, dallo sviluppo disuguale. Chi decide di affidare la sua vita e quella della famiglia a un vecchio barcone stipato all’inverosimile o a un gommone rattoppato sfidando il freddo, la sete e giorni di navigazione con qualsiasi tipo di mare, dietro di sé non ha più niente… Ecco, allora, che taluni comportamenti appaiono incomprensibili. A chi ci tende la mano non possiamo contrapporre il cinismo burocratico, la conoscenza a menadito delle norme, l’importanza del ruolo, il nostro stato di privilegiati, parole e definizioni che lasciano sgomenti. Dinanzi a chi non ha più una terra e una speranza occorrono atteggiamenti e stati d’animo diversi, c’è bisogno di tornare a conoscere la commozione e la fraternità, cose che il mondo, in particolare quello occidentale, sembra aver smarrito. Occorre veramente poco per aiutare chi non ha più nulla. Un pasto caldo, dell’acqua, una coperta. E poi un abbraccio. Se non si recupera al più presto una vera coscienza etica e morale, quella cioè che pone il rispetto per la vita umana come punto di riferimento nel nostro agire, saremo figli di un mondo dalle fondamenta di sabbia… Quella che trasforma in deserto il nostro cuore.

Come si può parlare di “carico residuale” riferendosi a esseri umani? Grigiore burocratico? Disumanità allo stato puro? Espressione infelice? Oppure “traslazione lessicale”, come qualcuno del governo si è affrettato a spiegare mettendo una toppa che si è mostrata peggio del buco? E dello “sbarco selettivo” ne vogliamo parlare? Anche questa espressione rientra nel novero delle “traslazioni lessicali”? Suvvia, siamo seri. Certamente il problema degli sbarchi e soprattutto la gestione degli immigrati clandestini necessitano di una particolare e profonda attenzione, ci mancherebbe. Ma prima della domanda di asilo, com’è possibile fare una distinzione? Solo con un’Europa unita e senza dannose fughe in avanti sarà possibile cercare soluzioni a un fenomeno complesso. Gli slogan sulla sicurezza e la legalità, del tipo siamo impegnati a difendere i valori dell’identità occidentale, recitati ogni giorno come una preghiera, lasciamoli alla campagna elettorale quando c’è bisogno di raccattare voti… Ora è il tempo di dare risposte concrete attraverso soluzioni rapide, senza lasciare nessuno indietro.

L’attualità, però, oltre alla spinta migratoria sull’Italia ci propone un altro fenomeno: sempre più italiani, soprattutto i giovani, “fuggono” all’estero. A ricordarcelo, visto che parliamo di un trend a noi non nuovo, è l’ultimo Rapporto italiani nel mondo della Fondazione Migrantes, un organismo pastorale della Conferenza episcopale italiana. In pratica, l’anagrafe degli italiani residenti all’estero ha superato la popolazione di stranieri regolarmente sul territorio nazionale. Gavetta infinita, stage a zero euro, borse di studio e offerte di lavoro improponibili, pochissime possibilità di vedere riconosciute le proprie capacita. Queste le principali motivazioni alla base della scelta dei nostri giovani. Però ci sono anche tante altre tipologie di lavoro di cui il nostro Paese avrebbe bisogno, ma anche in quel caso si sceglie l’estero. Destinazione anche di intere famiglie o pensionati Cos’è, allora, che non torna?

Credere di poter fermare la mobilità, come ha sottolineato il direttore generale della Fondazione, monsignor Pierpaolo Felicolo, è un’utopia, ma una riflessione seria sul nostro sistema economico e pensionistico, e soprattutto sulle politiche spesso “ostili” al mondo giovanile, rappresenta un’urgenza non più rimandabile.

Problematiche importanti, dunque, che grazie al prezioso contributo di una voce autorevole cercheremo di comprendere meglio. Maurizio Ambrosini è professore di Sociologia dell’ambiente e del territorio presso la facoltà di Scienze politiche, Economiche e Sociali dell’Università degli Studi di Milano, nonché responsabile scientifico del Centro studi di Genova sulle migrazioni nel Mediterraneo, fondatore e direttore della rivista Mondi migranti, prima rivista italiana di sociologia delle migrazioni. È anche consigliere esperto presso il Cnel, componente del comitato scientifico del Dossier immigrazioni della Caritas, autore di numerosi libri di successo, pubblicazioni internazionali, manuali di sociologia delle migrazioni, responsabile e coordinatore di diversi progetti e ricerche europei. Insomma, sarà il nostro Virgilio…

Dopo una giornata trascorsa in università, non è ancora il tempo delle pantofole… A aspettarlo, in serata, c’è una parrocchia fuori Milano dove terrà una conferenza. Prima, però, ha appuntamento con noi. E di questo lo ringraziamo, visti la fitta agenda di impegni e il tempo che ci dedica.

Professore Ambrosini, da profondo studioso e osservatore di un tema così importante e discusso, quali considerazioni le suscitano le ultime vicende sull’odissea delle navi Ong che per settimane hanno vagato nel Mediterraneo?

Bisogna dire che i profughi che arrivano attraverso le navi delle Ong sono qualcosa come il 10,5% del totale degli sbarcati in Italia. Lasciando quindi da parte il fatto che quelli che sbarcano sono una quota modesta rispetto all’insieme degli immigrati, i rifugiati richiedenti asilo in Italia sono circa 200 mila su circa 5 milioni e 300 mila immigrati. Dunque parliamo di un fenomeno piuttosto modesto che viene caricato di significati politici. È stato messo al centro dell’attenzione per ragioni di consenso e bandiera. Perché si pensa che alla maggioranza degli italiani possa far piacere lasciare questa gente in mare o respingerla verso la Libia…

Dati alla mano, al di là della propaganda spicciola, l’Italia può ritenersi un Paese “abbandonato” dall’Europa perché accoglierebbe il maggior numero di migranti?

Assolutamente no, è una grossa fesseria… Se prendiamo le richieste d’asilo, la Germania ne ha più di 100 mila e insieme alla Francia e alla Spagna ci precedono. Se poi osserviamo i dati in percentuale sulla popolazione, ad esempio la Svezia ha 25 rifugiati ogni mille abitanti mentre l’Italia ne ha 3,5… Quindi è un’invenzione quella dell’Italia lasciata sola dall’Europa. Il giorno in cui facessero veramente una redistribuzione per quote a noi toccherebbe prenderne molti di più di richiedenti asilo… Se mai bisognerebbe dare a tutte le persone che arrivano chiedendo asilo la possibilità di insediarsi dove vogliono, così come è stato fatto per gli ucraini. Non sarebbe pertanto nemmeno una grande novità.

È profondamente ingiusto fare una distinzione tra la gente disperata che ci chiede aiuto…

Proprio così, colpisce molto questa differenza. Centosettantamila rifugiati ucraini non sono un problema, per fortuna, e sostanzialmente sono stati bene accolti, a dimostrazione che non è vero che siamo in troppi e che non possiamo accogliere altri. Viceversa, la metà dei 170 mila ucraini, ovvero gli 87 mila sbarcati dal mare, è considerata una calamità. Temo, purtroppo, che centri il colore della pelle…

Tra l’altro anche gli ucraini hanno a che fare con l’immigrazione irregolare…

Senza dubbio. Nella sanatoria del 2020 la nazione che ha presentato più domande è stata l’Ucraina. In realtà, soprattutto le donne ucraine, hanno potuto approfittare di due aspetti. Uno è che l’Ucraina, così come tutti i paesi dei Balcani che non fanno ancora parte dell’Unione Europea, godono della possibilità di entrare senza visto per soggiorni turistici di durata inferiore ai 90 giorni. Quindi possono arrivare in Italia con il solo passaporto. Poi, se trovano lavoro, si fermano. L’altro elemento è la domanda di lavoro per assistenza agli anziani da parte delle nostre famiglie che continua ad attrarre immigrazione.

Ascoltare la definizione “carico residuale” in riferimento a degli esseri umani, che effetto le ha fatto?

C’è di peggio… Se consideriamo che l’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha definito gli immigrati irregolari animali. E siccome la speaker democratica del congresso Nancy Pelosi glie lo ha rimproverato, Trump ha dato dell’animale anche a lei… Di conseguenza, quindi, non c’è mai limite al peggio, anche nel linguaggio. In realtà vi sono delle contorsioni per cercare di non adempiere ai nostri obblighi umanitari sanciti dalle convenzioni internazionali e dalla stessa Costituzione italiana. Allora questa idea di fare la selezione dei fragili e l’introduzione di nuove categorie come appunto quella del “carico residuale” sono dispositivi retorici che servono a un obiettivo politico. Cioè alzare la bandiera, aprire un contenzioso con i nostri partner europei e far vedere che l’Italia è per la linea dura, mostra i muscoli, rivendica la sovranità e la tutela dei confini. Questa sacralizzazione dei confini mi colpisce particolarmente, come fossero un valore assoluto. Sono linguaggi e visioni di altri tempi… È ciò che nel 900 ha scatenato le guerre; quest’idea dei confini inviolabili, lo straniero le porte…

Troppo spesso, infatti, ci si dimentica che il popolo italiano si è reso protagonista di un periodo di grande emigrazione…

Vero. Purtroppo, però, la storia non ha mai insegnato nulla. L’argomento solito, e cioè siamo stati emigranti anche noi, non aiuta. Anzi, viene usato per dire che non vogliamo ritornare a quei tempi. Siccome i nostri hanno fatto tanta fatica non vogliamo che altri arrivino da noi accolti in albergo e nel confort… Serve di più, allora, l’argomento che hanno usato i francesi…

Cioè?

Voi siete il primo Paese che prende i soldi dall’Europa (il Pnrr), i cosiddetti fondi post pandemia. Di conseguenza non potete giocare con l’Europa su due tavoli e con logiche diverse. Quando c’è da chiedere e ottenere lo pretendiamo, quando invece c’è da mostrare cooperazione e solidarietà a livello europeo cerchiamo di schivare gli obblighi, come un’Ungheria qualunque…

Invece di discutere di confini o di acque internazionali, passando sulla pelle di gente disperata costretta per tante ragioni a fuggire dalla propria terra, perché non si approfondiscono le ragioni di tale fenomeno? Non sarebbe ora che l’Occidente provasse a fare un mea culpa, serio e profondo, sulle cause che hanno portato allo sconvolgimento degli equilibri dell’intera area mediorientale?

Il discorso è complesso. Certamente le politiche occidentali hanno indotto l’instabilità e quindi condizioni di conflitto, tensioni etniche e fughe. Altri problemi in questa area, invece, sono endemici, antichi.

Esportare la democrazia” non sempre ha sortito risultati positivi…

In Afghanistan in effetti è stato un disastro… In Libia, invece, quando Gheddafi assediava i suoi oppositori e stava per finire la cosiddetta “primavera araba” in un bagno di sangue, alcuni governi europei hanno deciso di intervenire. In quel caso è difficile fare un ragionamento cinico come qualcuno fa, e cioè dovevamo lasciare che Gheddafi li massacrasse e quindi mantenerlo al potere. Io non me la sento. Anche in Iraq la situazione è abbastanza complessa. Ad esempio il Kurdistan iracheno, che io conosco, grazie all’intervento americano ha potuto ottenere autonomia, sostanziale autogoverno e oggi, grazie anche alla vendita petrolifera, sta conoscendo una stagione di sviluppo. In qualche caso, quindi, la situazione è migliorata. Invece è mancata del tutto la gestione della situazione dopo gli interventi. In Europa abbiamo avuto il piano Marshall senza il quale, al termine del conflitto, probabilmente ci saremmo ritrovati come l’Iraq… Ecco, soprattutto in questa direzione ritengo che l’Occidente sia mancato. Avere cioè un’idea, una visione, nel fare un investimento per la ricostruzione e lo sviluppo della sponda sud del Mediterraneo. Per altri aspetti, poi, le migrazioni derivano dal fatto che certi valori, come la libertà, l’autonomia delle persone, i diritti della donna circolano nel mondo. In questo senso l’Occidente ha proposto certi valori attraenti ai giovani del resto del mondo.

Ad esempio?

La libertà individuale, la maggiore autonomia e autodeterminazione delle donne. Sposarsi per amore… Tutti i valori tipicamente occidentali che sono inevitabilmente attraenti.

Dell’invasione russa in Ucraina, invece, che idea ha?

In questo caso andiamo un po’ al di là delle mie competenze… Siamo tornati indietro nella storia di circa 70/80 anni… Non credevo di rivedere la guerra in Europa e vedere l’invasione di uno Stato sovrano la parte di un altro Stato sovrano. Di vedere masse di profughi in Europa. Questo evento così tragico e inaspettato ha cambiato molto delle mie rappresentazioni dell’Europa, della sua faticosa evoluzione, della possibilità di un modello di pace, di cooperazione come un esempio per il resto del mondo. Speriamo di riuscire a chiudere al più presto questa brutta pagina. Sarebbe già un auspicio per riuscire a tornare in un cammino di pace che coinvolga anche l’Europa dell’Est. Una lezione che arriva da questa vicenda è che dobbiamo pensare a un’Europa più vasta, integrando altri Paesi. Se l’Ucraina avesse fatto parte dell’Unione Europea sarebbe stato più difficile invaderla. Così come Putin non ha osato invadere le repubbliche baltiche, almeno finora…

È più ottimista o pessimista?

Io cerco di pensare positivo…

L’invio continuo di armi può essere il deterrente giusto?

In questo caso mi trovo in una posizione di incertezza… Da una parte c’è il diritto dell’Ucraina a difendersi, dall’altra il desiderio di favorire le trattative, i negoziati e quindi il raggiungimento della pace il prima possibile. Credo che sia importante tenere insieme le due cose. Da una parte aiutare gli ucraini, purtroppo anche con tecnologie militari, e dall’altra, però, spingere per le trattative e prepararsi anche a finanziare la pace e la ricostruzione.

Senza dubbio sarà una fase delicata…

Ancora una volta bisognerà vincere il dopoguerra. Nel 1900 l’Italia ha vinto la Prima guerra mondiale ma ha perso la pace e ci siamo ritrovati il fascismo. Ha perso la Seconda guerra mondiale ma ha vinto la pace e ci siamo ritrovati lo sviluppo post bellico. Anche nel caso ucraino, quindi, non c’è solo il problema di chi vince o perde la guerra, ammesso che in una guerra possano esserci vincitori e vinti. Sarà molto importante vincere il dopoguerra. Cioè favorire la pacificazione e lo sviluppo dell’Ucraina.

Dall’immigrazione alle migrazioni. L’ultimo Rapporto Migrantes dice che dal 2006 a oggi, secondo i dati dell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire), la presenza degli italiani all’estero è progressivamente cresciuta passando da 3,1 milioni a oltre 5,8 milioni. E tra chi decide di lasciare il nostro Paese con il biglietto di solo andata ci sono sempre più giovani. C’è da preoccuparsi?

Diciamo, intanto, che le cifre sono sottostimate in quanto una fetta consistente degli italiani che sceglie di andare all’estero, soprattutto in Europa, non si scrive all’Aire. Perché magari non sono sicuri di rimanerci, oppure perché hanno il medico in Italia e preferiscono curarsi lì…

Quindi il dato reale è ancora più alto?

Assolutamente si. Ad esempio quando c’è stata la Brexit, a Londra hanno verificato che c’erano 300 mila italiani. Londra è una delle più importanti città italiane… Quindi il dato effettivo è ancora più alto. C’è da preoccuparsi? Forse non tanto del fatto che i nostri giovani vadano all’estero, ma che sia così difficile ritornare… Che non ci sia circolazione.

Questo da cosa dipende?

Dal fatto che l’Italia sostanzialmente, adesso la dico un po’ rozzamente, non è un paese per giovani istruiti. L’Italia negli ultimi trent’anni ha importato braccia ed esportato cervelli, e anche braccia. Al di là di quello che si dice, il nostro sistema educativo, le nostre università sfornano ogni anno migliaia di giovani preparati ma il mercato del lavoro non li assorbe adeguatamente. Propone loro condizioni di lavoro, stipendi e mansioni deludenti.

Alla base di questo c’è sempre una questione economica?

La ragione principale è il funzionamento dell’economia italiana, il suo mercato del lavoro, il suo modello di capitalismo.

Nel dossier si parla di un’Italia che ristagna nelle sue fragilità: mancanza di lavoro certo, qualificato e abilitante. Insomma, nessuna garanzia di un futuro… La cosa sorprendente è che il tasso di espatrio più significativo si riferisca ai giovani del Nord Italia, dove solitamente offerte di lavoro e possibilità di migliorare il proprio status sono molto più alte che altrove…

Io vivo a Milano e in genere la città è vista come la Mecca dai giovani rispetto al resto d’Italia. Purtroppo non è tanto vero. I giovani istruiti hanno più facilità di trovare lavoro a Milano rispetto ad altre regioni, ma non è sempre un lavoro soddisfacente. Perché è precario, perché è mal pagato, perché comporta orari disastrosi…

Quindi una volta che si sperimenta il lavoro oltre confine, è difficile tornare indietro…

Mi hanno detto alcuni che sono andati all’estero che il primo stipendio era già il doppio di quello che prendevano in Italia… Ovviamente poi i costi della vita sono più alti, bisogna sempre fare la tara. I costi abitativi, infatti, vivendo in famiglia in Italia verrebbero ammortizzati, cosa che invece non succede all’estero. Queste favorevoli economie familiari, oltre ai sistemi di relazione, diciamo ad esempio la fidanzata o il fidanzato, rappresentano il motivo per cui non c’è una “fuga” di dimensioni più ancora più marcata di giovani.

Andrebbe dunque ripensato il nostro modello economico rispetto all’ingresso nel mondo del lavoro delle nuove generazioni…

Ad esempio, se con i fondi del Pnrr si riaprissero in modo sostanzioso le assunzioni nel mondo della pubblica amministrazione, ci sarebbe la possibilità di offrire sbocchi a giovani qualificati e istruiti, attraverso un lavoro dignitoso e stabile.

A proposito di lavoro dignitoso, la scorsa estate gli imprenditori turistici, in particolare quelli che lavorano nel settore balneare, hanno lamentato la mancanza di manodopera stagionale puntando l’indice sugli effetti del Reddito di cittadinanza. L’altra parte in causa, invece, ha parlato di mancanza di rispetto delle regole contrattuali con orari di lavoro assurdi e stipendi ridicoli… Dov’è la verità?

A lamentarsi di questo non sono stati solo i balneari, ricordo ad esempio il presidente dei costruttori edili che lamentava la mancanza di circa 270 mila lavoratori nel settore. Il problema è che anche al netto di come li trattano – condizioni di lavoro, irregolarità, eccetera – i miei laureati sui tetti a sostituire le tegole non li vedo… C’è quindi un’incongruenza tra ciò che il mercato richiede – lavoratori edili, bagnini, camerieri, baristi – e ciò che i giovani istruiti invece vogliono fare. Vorrei ricordare che in Italia più dell’80% dei giovani arriva al diploma di scuola secondaria superiore e più della metà s’iscrive all’università, anche se poi non tutti finiscono il percorso. Uno può criticare alcuni atteggiamenti dei giovani alimentando le solite lamentele, come ad esempio quelle sulla partecipazione ai rave party anziché andare ad asfaltare le strade, oppure le ragazze che assistono gli anziani notte e giorno, ma il mondo è questo.

Come se ne esce allora?

Una valvola di sfogo, come ho detto in precedenza, è sempre stata la pubblica amministrazione. Riaprendo le assunzioni si darà uno sbocco a migliaia di giovani istruiti. Ad esempio alle ragazze consentirebbe, in prospettiva, anche una migliore conciliazione tra lavoro e progetti familiari.

Secondo lei può esserci una correlazione tra la bassa natalità che si registra in Italia e la “fuga” dei giovani?

In parte c’è, nel senso che le famiglie avendo un figlio solo e magari quattro nonni riescono a finanziare gli studi dei figli, a proteggerli dal lavoro manuale povero di cui abbiamo parlato, a finanziare vacanze all’estero, lo studio delle lingue e quindi a favorire anche, in prospettiva, la loro mobilità oltre le frontiere italiane. Non è un caso, quindi, che dal Nord ci sia un flusso maggiore di giovani che varcano i confini nazionali. Forse le famiglie sono anche più abituate alla mobilità internazionale.

Si può trovare, invece, una qualche analogia con il fenomeno dell’emigrazione verificatosi dopo le due guerre mondiali?

L’emigrazione italiana è stata particolarmente rigogliosa prima della Prima guerra mondiale, a cavallo tra l’ottocento e il novecento. A quell’epoca l’Italia era il primo Paese al mondo, si stima che 13 milioni siano andati all’estero. Poi tra le due guerre c’è stato un rallentamento per via della crisi del 1929, di legislazioni più restrittive negli Stati Uniti, a partire dalla 1924, e anche la resistenza del regime fascista che non amava l’emigrazione. La considerava un tradimento. Semmai cercava di spingere gli italiani verso le colonie. Quindi abbiamo avuto fasi diverse, per una volta eravamo noi a fornire le braccia. La grande differenza era quella. Intendiamoci, adesso ci sono ancora le braccia, si stima infatti che una volta all’estero circa il 50% dei ragazzi alla fine ripiega in lavori manuali, al di là del titolo di studio che ha in tasca. Magari come pizzaioli, baristi, portieri d’albergo. In questo caso, però, bisognerebbe dire che intanto lo stipendio è più alto di quello che avrebbero preso in Italia. Inoltre, fare un lavoro manuale umile all’estero è più accettato che farlo sotto casa. Servire, ad esempio, il caffè ai propri compagni di scuola o ai loro genitori, per tanti non è particolarmente bello… Farlo invece a Berlino, ad esempio, non è un problema. Poi uno spera di poter far carriera, di migliorarsi, intanto impara la lingua. Il paradosso, quindi, è questo: una parte di giovani è disposta a fare il pizzaiolo a Francoforte o a Londra che nella propria città o in un’altra città italiana.

Sul piano sociale questo cosa comporta?

L’effetto negativo è che va sprecato un capitale umano, cosa che non giova allo sviluppo del nostro Paese. Penso soprattutto a chi ha titoli di studio, ad esempio ai medici che vanno all’estero. Pensiamo cosa costa formare un medico. La Lombardia, ad esempio, “fornisce” migliaia di infermieri al Canton Ticino, per poi assumerli da altri Paesi… Un terzo degli infermieri in Lombardia è di origine straniera. C’è, dunque, questo strano circuito che si spiega però abbastanza chiaramente con la differenza di stipendio.

Comments are closed.