UNA ENCICLICA COME PROFEZIA PER GLI UOMINI DI BUONA VOLONTÀ

a cinquant’anni dalla Pacem in terris
By Angelo Paoluzi
Pubblicato il 2 Aprile 2013

Il messaggio di papa Giovanni XXIII è l’inizio di una valanga che ha modificato il modo di pensare dei cristiani e della chiesa ufficiale

Nell’arco di cinquant’anni a due papi anziani, detti “di transizione”, si devono alcune fra le più clamorose rivoluzioni culturali della fine del secondo millennio e dell’inizio del terzo. Quella di Benedetto XVI è sotto gli occhi di un mondo che non si è ancora riavuto dalla sorpresa. L’altra, di mezzo secolo fa, è l’inizio di una valanga che ha modificato il modo di pensare dei cristiani e della chiesa ufficiale. Parliamo dell’enciclica Pacem in terris, promulgata l’11 aprile 1963, come ultimo atto ufficiale di Giovanni XXIII, cinquantatre giorni prima della morte, il 6 giugno, festa dell’Ascensione del Signore.
L’umanità era reduce da una paura da brivido: nel novembre 1962 si era sfiorato il conflitto nucleare, per la cosiddetta “crisi dei missili”, quando i sovietici volevano istallare ordigni atomici a Cuba e contro il cui arrivo gli Stati Uniti avevano schierato la flotta e minacciato reazioni a fuoco. È universalmente riconosciuto che la mediazione di papa Roncalli aveva evitato al pianeta quel “giorno dopo” nel quale si sarebbero registrate soltanto macerie.
Ma la “guerra fredda” continuava: nell’estate del 1961 era stato eretto il malfamato “muro di Berlino”; era in dissoluzione, non senza tensioni, il dominio coloniale europeo e conquistavano l’indipendenza numerosi popoli in Asia e Africa, compresa l’Algeria, dopo un feroce conflitto, con la “pace dei bravi” favorita dal presidente Charles De Gaulle; e proprio allora cominciava la sciagurata avventura vietnamita degli Stati Uniti, che sarebbe sfociata quattordici anni dopo nella prima sconfitta militare americana.
Quel papa anziano aveva indetto il Concilio Ecumenico Vaticano II, iniziato nell’ottobre 1962 e la cui seconda sessione si apriva negli ultimi mesi della sua vita. E al Concilio aveva lasciato in eredità, appunto, la Pacem in terris. Si è sorpresi, in questo 2013, dalla carica anticipatrice di quel lungo documento che – con linguaggio per nulla clericale e con accenti di una grande modernità – si articola attorno a quattro pilastri sui quali è fondata la convivenza fra gli esseri umani: la verità, la giustizia, la carità, la libertà. Non sono parole nuove per i cristiani, che in molti casi ne praticavano i valori con spontanea testimonianza. Ma lo sono state per il magistero della chiesa che ratificava così ufficialmente la sua adesione ai principi proclamati nel 1948 dalla Carta delle Nazioni Unite con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
La Pacem in terris diventava in tal modo un codice di vita e resta come  testamento di un papa considerato conservatore. Con grande disappunto di un moderatismo clericale che infelicemente definì l’enciclica Falcem in terris, forse per la vigorosa rivendicazione delle esigenze di quanti sino ad allora avevano ricoperto il ruolo di sfruttati. Il “parroco del mondo” Angelo Giuseppe Roncalli aveva sanzionato nella vita della chiesa e in modo ufficiale la cittadinanza del mondo del lavoro, la funzione e la dignità della donna, la legittimazione del processo di autonomia dei popoli coloniali.
Giovanni XXIII ha saputo cogliere (ricordiamo la rivendicazione del ruolo della chiesa nella precedente enciclica Mater et magistra) quelli che lui stesso definiva segni dei tempi. In un lascito agli “uomini di buona volontà” (formula sino ad allora inusuale nelle lettere encicliche) che troverà generosi sviluppi a tutte le latitudini: basta pensare alla scelta preferenziale dei poveri proposta a Medellìn nel 1968 dall’assemblea dei vescovi latino-americani; alla vigorosa sottolineatura, in Messico nel 1979, da parte di Giovanni Paolo II sulla opzione sociale della proprietà (che fu ac-compagnata da tanti malumori presso i beati possidentes); e ancora alla proposta del 1988 “Ripartire dagli ultimi” della Conferenza episcopale italiana. E si potrebbero fare molti altri esempi.
Abbiamo usato il termine “valanga”, con tutte le sue conseguenze. A partire dalla fonte di ispirazione che Pacem in terris è stata per i successivi interventi di Paolo VI: si pensi soltanto alla Populorum progressio che salutava il cammino di affrancamento dei paesi già coloniali; per Giovanni Paolo II, comprese le richieste di perdono per i passati errori e le storiche violenze consumate dal potere temporale della chiesa; per Benedetto XVI, i cui scritti grondano di appelli alla pace. Per arrivare ai correttivi sul concetto di “guerra giusta”: nessuna guerra può essere giusta, come si dichiara nel Catechismo della chiesa cattolica e nel successivo Compendio della dottrina sociale della chiesa.
Possiamo quindi concludere con quanto ha scritto il cardinale Renato Raffaele Martino: “…certi passi della Pacem in terris che parlano di globalità assumono oggi un significato assai pregnante, acquistano una nuova capacità di illuminare la storia contemporanea e i suoi problemi, si staccano dal contesto di allora, che li ha visti nascere, per parlare anche all’oggi. La globalizzazione dei rapporti internazionali, infatti, rappresenta un contesto più recettivo del messaggio della Pacem in terris tendenzialmente aperto a un punto di vista universale. I temi della pace e del terrorismo, quello del rinnovamento delle relazioni universali e della riforma degli organismi internazionali, l’argomento di una nuova confidenza tra le nazioni e di una maggiore trasparenza nelle relazioni internazionali, il tema dei diritti umani, anche di nuova generazione, emergono con forza nell’attuale contesto globalizzato e trovano nelle parole della Pacem in terris un messaggio oggi forse più significativo di quello del 1963”.

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