Il direttore del centro di Cardiochirurgia V.Gallucci, a trent’anni dal primo trapianto di cuore eseguito nell’ospedale di Padova, attraverso interventi pionieristici tiene alto nel mondo il nome del nostro paese. Basterebbe una goccia del fiume di denaro pubblico sprecato o finito nei rivoli della corruzione per avere entro pochi anni un cuore artificiale made in Italy
Trent’anni fa, precisamente la notte fra il 13 e il 14 novembre 1985, Vincenzo Gallucci e la sua équipe eseguirono a Padova il primo trapianto di cuore in Italia. Un falegname veneto, affetto da una grave forma di cardiopatia dilatativa, ebbe salva la vita grazie alla bravura del professor Gallucci e del suo staff ma soprattutto al cuore donato dai genitori di un ragazzo, Francesco Busnello, morto in un incidente in motorino. Una pietra miliare per la cardiochirurgia italiana e fiore all’occhiello dell’Azienda ospedaliera di Padova che negli anni ha saputo far crescere meravigliosamente. Morto sei anni dopo in un incidente stradale, proprio pochi mesi prima dell’apertura del centro di Cardiochirurgia che oggi porta il suo nome, Vincenzo Gallucci ha trovato un degno erede nel professor Gino Gerosa, attuale direttore del centro di Cardiochirurgia e punta di diamante dell’Azienda ospedaliera/università di Padova.
Cinquantotto anni appena compiuti, aria sbarazzina, grande cervello, manualità di assoluto pregio, ricercatore serio e scrupoloso, uomo e professionista con la curiosità perennemente attiva. Il tutto accompagnato da un carattere che nulla ha del “cattedratico” grigio e altezzoso, bensì amabile, comunicativo e disponibile. Insomma, una bella persona ma soprattutto un vero e proprio fuoriclasse internazionale della cardiochirurgia e della ricerca, come ci ricorda il suo curriculum “sintetizzato” in queste pagine.
Negli anni, grazie a una serie di interventi pionieristici a livello mondiale, studi e ricerche varie ha consolidato la sua fama ponendosi tra i professionisti di livello assoluto. Un cervello che inorgoglisce tanti: dalla città all’azienda ospedaliera di Padova, dalla regione Veneto e l’Italia tutta. Tante le vite salvate, tante le speranze riaccese, tanti gli anni trascorsi in sala operatoria e nei laboratori, tanto il tempo sottratto alla sua famiglia. D’altra parte la medicina, senza voler scomodare Ippocrate o Albert Schweitzer, non può essere paragonata a un semplice lavoro. A mio avviso è un modo di vita, una vocazione, anche se a volte, ahinoi, la cronaca ci racconta cose diverse… Ci vuole una dedizione speciale, un animo particolarmente sensibile che non può avere come riferimenti lo stipendio e il cartellino da timbrare…
Ma fermiamoci qui, anche perché questa volta i riflettori sono puntati sulla sanità che funziona e su quei medici, come Gino Gerosa, che rappresentano al meglio la categoria e il nostro paese.
Con una puntualità da far arrossire gli orologiai svizzeri… mi riceve nel suo studio del centro Gallucci dell’ospedale di Padova. È una giornata frenetica, zeppa di impegni. In pratica la solita… A testimoniarlo è il trillo del cellulare durante l’intera chiacchierata, ma la disponibilità del nostro interlocutore non ne risente…
Professor Gerosa, a distanza di 30 anni dal primo cardiotrapianto in Italia, che evoluzione ha avuto la cardiochirurgia?
C’è stata una grandissima evoluzione sia per la tecnologia, sia per le tecniche chirurgiche. Prima si parlava di cardiochirurgia mini invasiva, oggi invece c’è quella che io amo definire cardiochirurgia micro invasiva.
Ci spiega le differenze?
Nella cardiochirurgia mini invasiva si riducono le dimensioni dell’incisione, della cicatrice, però si utilizza sempre la circolazione extracorporea fermando quindi il cuore. Oggi, invece, grazie alla tecnologia ci sono alcuni interventi in cui possiamo non solo ridurre le dimensioni dell’incisione chirurgica e quindi delle cicatrici ma eseguire l’intervento a cuore battente, senza utilizzare la circolazione extracorporea.
Questa tecnica può essere utilizzata in tutti gli interventi chirurgici?
Purtroppo no. Ad esempio, va bene nella sostituzione valvolare aortica, nella riparazione della valvola mitrale, negli interventi di bypass aorto-coronarico e nell’impianto di VAD (ventricoli artificiali).
Ovviamente il trapianto di cuore resta la migliore risposta terapeutica per i pazienti affetti da insufficienza cardiaca non più responsiva a terapia medica…
Assolutamente sì, anche se non è più una freccia che abbiamo nella nostra faretra di scelte terapeutiche…
Per quale motivo? Il nostro paese, se non sbaglio, è il secondo in Europa come numero di donatori rispetto agli abitanti…
È vero, il dato in suo possesso è giusto però sono cambiati alcuni fattori. Tutto nasce da una legge dello stato seriamente applicata…
Cioè?
Quella sull’utilizzo del casco che di fatto ha completamente modificato il profilo dei donatori. Una volta, parliamo del 1985 quando fu eseguito il primo trapianto di cuore, la media del donatore era inferiore ai vent’anni in quanto si trattava del povero ragazzino vittima di un banale incidente con il motorino. Batteva la testa sull’asfalto e da lì la morte cerebrale. Oggi, invece, per fortuna questi donatori sono spariti e il donatore è diventato un 50/60enne che muore per ischemia cerebrale o emorragia… Ovviamente in entrambi i casi si tratta di soggetti con fattori di rischio quali ad esempio l’ipertensione e il diabete che se non impattano sfavorevolmente gli altri organi come ad esempio il fegato, il rene o il polmone, penalizzano il cuore e di conseguenza si sviluppa una malattia coronarica.
A livello farmacologico, invece, su che percentuale si attesta oggi la risposta alle patologie cardiache?
Dare percentuali sulle singole patologie non è semplice, però sicuramente si stanno sviluppando nuovi farmaci che sembrerebbero estremamente interessanti per quanto riguarda la terapia dello scompenso cardiaco. Dunque l’utilizzo di farmaci innovativi, insieme alla prevenzione, potrebbe allontanare i pazienti dal cosiddetto scompenso cardiaco irreversibile.
L’incisione dello sterno, invece, in che percentuale è possibile evitarla?
La gran parte degli interventi avviene ancora attraverso la sternotomia, anche se in molti interventi è possibile agirarla. Diciamo che siamo intorno al 30-40% degli interventi di cardiochirurgia. Più che evitare la sezione dello sterno, però, è fondamentale una cardiochirurgia micro invasiva. Senza fermare il cuore e quindi senza utilizzare la circolazione extracorporea che, pure essendo oggi ampiamente sicura, resta comunque una condizione non fisiologica.
Lei e la sua équipe siete stati i primi al mondo a eseguire un intervento combinato di impianto di bioprotesi valvolare aortica e in contemporanea di riparazione della valvola mitralica. Il tutto a cuore battente…
Sia nella bioprotesi valvolare aortica che nella riparazione della valvola mitrale abbiamo utilizzato una tecnica transcatetere. Siamo entrati dalla punta del cuore senza usare la circolazione extracorporea.
Qual è stata la difficoltà maggiore?
Grosse difficoltà non ne abbiamo avute anche perché qui a Padova avevamo una notevole esperienza nell’impianto transcatetere della valvola aortica. Siamo stati infatti il primo centro a eseguirlo nel 2007. Inoltre il nostro gruppo ha più esperienza al mondo nelle tecniche di riparazione della valvola mitrale a cuore battente.
Quella appena descritta è un’operazione cosiddetta a cielo coperto…
Esattamente. Quando realizziamo questo tipo di intervento il cuore resta chiuso, non abbiamo accesso alle cavità cardiache di conseguenza non c’è necessità di fermare il cuore ricorrendo alla circolazione extracorporea. Ovviamente il cardiochirurgo non guarda de visu bensì attraverso altre possibilità di imaging che sono da una parte i raggi, quindi la scopia, nel caso della sostituzione valvolare aortica oppure l’ecocardiografia tridimensionale nel caso della plastica alla valvola mitrale. Attraverso queste immagini guardiamo l’interno del cuore senza aprirlo…
Una più veloce ripresa del paziente e soprattutto il mancato ricorso alla circolazione extracorporea sono i vantaggi principali nell’utilizzo della cardiochirurgia micro invasiva. Le controindicazioni?
Occorrono condizioni anatomiche particolari che permettono l’esecuzione dell’intervento.
Nella sua applicazione c’è una differenza di genere?
No, se le condizioni anatomiche lo consentono si può tranquillamente eseguire in un uomo o in una donna.
I componenti dell’équipe che ruolo giocano in sala operatoria?
Oltre al leader, quello che deve avere la vision come la chiamano gli anglosassoni, cioè pensare che l’impossibile di oggi potrà essere il possibile di domani, anche l’équipe è fondamentale. Un uomo, infatti, da solo non riesce a sviluppare tutti i programmi che in realtà un gruppo ben amalgamato, ben assortito e ben motivato riesce a fare.
Ovviamente anche l’attrezzatura ha la sua importanza…
Certamente e di questo noi dobbiamo ringraziare la direzione dell’ospedale di Padova che ci mette in condizioni di poter avere accesso alle attrezzature e alle nuove tecnologie.
A finanziamenti come siete messi?
Non possiamo lamentarci in quanto la cardiochirurgia è una delle punte di diamante della nostra azienda ospedaliera.
Anche a livello europeo il vostro centro raccoglie grande apprezzamento…
È vero, intorno al nostro lavoro c’è grossa attenzione e considerazione… Recentemente sono tornato da Hannover dove si festeggiava il 50º anniversario della fondazione della facoltà di medicina dell’università. Hanno organizzato una giornata con interventi a invito ed essere lì in rappresentanza della cardiochirurgia di Padova è un attestato sicuramente importante, non solo per il nostro centro e l’azienda ospedaliera.
Da oltre vent’anni avete investito in un’altra interessantissima ricerca, ovvero l’ingegneria dei tessuti. Di cosa si tratta?
Con l’ingegneria rigenerativa abbiamo iniziato nel 1992. Devo dire che è sempre stato un mio pallino essendo un tipo molto curioso, mi piace riempire di domande i giovani biologi con cui lavoro… Quest’anno, poi, la tecnologia sviluppata per la decellularizzazione degli homograft l’abbiamo donata alla Regione Veneto avendo l’Istituto superiore di sanità approvato il protocollo di applicazione clinica. In questo modo abbiamo potuto utilizzare nei pazienti la tecnologia che avevamo messo a punto. Siamo stati così testardi da produrre risultati con un budget inferiore rispetto a quello del gruppo di ricerca di Hannover… Attualmente in Europa siamo solo in due ad avere a disposizione questa tecnologia per decellularizzare gli homograft.
Di cosa si tratta?
Come è già stato dimostrato in ambito clinico permette una minore riduzione della degenerazione calcifica dell’homograft garantendo una maggiore durata nel tempo. Gli homograft sono valvole che provengono da cadaveri umani, conservate con un processo di congelamento e riportate a temperatura al momento del bisogno. Sono utilizzate soprattutto nella correzione delle cardiopatie congenite. In sintesi, la procedura prende avvio dalla valvola aortica o polmonare recuperata da donatori, sia in caso di morte cerebrale che cardiaca. La decellularizzazione è una tecnologia che consente di mantenere intatta l’architettura della matrice extracellulare trattata, senza modificarne cioè le originali proprietà biomeccaniche ed emodinamiche.
A proposito di soldi, che ne pensa dell’attenzione della politica nei confronti della ricerca?
È una bella domanda… Quando sento dire che non ci sono soldi da destinare alla ricerca e poi vedo come vengono dispersi fiumi di denaro in milioni di rivoli…, alcuni dei quali quote di finanziamento pubblico, sinceramente ci resto male. Effettivamente la ricerca necessiterebbe di una maggiore attenzione.
Se guidasse lei il governo quale strada seguirebbe?
Visto che non sono un politico vorrei evitare di dire sciocchezze… Sicuramente non dico nulla di nuovo, ma se la gran parte dei soldi che viene persa nell’ambito di episodi di corruttela e quant’altro venisse impiegata nella ricerca… Basta ad esempio andare in Sardegna e vedere cosa hanno allestito per il famoso G8… Un tempio nel deserto… Senza allora voler fare del qualunquismo spicciolo dico che quei soldi e tanti altri ancora potevano e potrebbero essere investiti in settori più importanti, ovviamente non solo nella ricerca. Una più attenta e oculata gestione del bene comune, infatti, ci permetterebbe di fare un grosso balzo in avanti.
Altro primato mondiale che porta la sua firma riguarda il mini cuore Cardio West 50 cc in grado di sostituire le funzioni dell’organo naturale, impiantato appunto per la prima volta in un giovane già trapiantato…
Sì, abbiamo impiantato un cuore artificiale totalmente meccanico, che è disponibile da alcuni mesi. Un intervento durato circa 11 ore che ci ha permesso di salvare la vita a un ragazzo che precedentemente era già stato sottoposto a trapianto cardiaco. È di fabbricazione americana ed è l’unico cuore totalmente artificiale attualmente disponibile. Fu sviluppato alla fine della seconda guerra mondiale.
È vero che anche a Padova state lavorando a un cuore totalmente made in Italy?
Sì e siccome siamo alla ricerca di finanziamenti approfitto della vostra gentile ospitalità per lanciare un appello…
Attualmente, però, è l’azienda francese Carmat quella più vicina allo sviluppo di un cuore totalmente artificiale come alternativa per le persone affette da insufficienza cardiaca allo stato più grave…
Dovrebbe essere la risposta francese al cuore americano. Sicuramente ha un contenuto di tessuto biologico interessante perché le cavità interne dei ventricoli sono rivestite, ha delle valvole biologiche anziché meccaniche e un software molto complesso con numerosi sensori di posizione, di pressione, di volume. Purtroppo i primi impianti sono stati seguiti dalla morte dei due pazienti per un problema al software del sistema. Ovviamente più il sistema è complesso più alto è il rischio di un errore nella procedura.
È vero che anche il peso di 900 grammi, quasi il triplo di quello di un essere umano, potrebbe rappresentare problema?
In effetti un altro grosso limite di Carmat rispetto al cuore artificiale americano sono le dimensioni. In pratica può essere impiantato su pazienti di sesso maschile e di grossa superficie corporea. Quindi, sulla scorta dei dati forniti dalla stessa azienda francese, meno del 75% degli uomini e meno del 25% delle donne sono i potenziali candidati all’impianto di questo cuore artificiale. Pur essendo arrivato trent’anni dopo il primo cuore artificiale ha, purtroppo, questo limite delle dimensioni.
Oltre alla Francia quali altri paesi lavorano a questo progetto?
C’è un cuore artificiale tedesco che è stato già impiantato negli animali. Era previsto un primo impianto dell’uomo nel 2015 ma anche loro hanno grossi problemi perché è molto voluminoso. Un altro lo stanno sviluppando i giapponesi ma sono ancora nella fase di impianto nell’animale. E poi ci siamo noi che siamo così presuntuosi da voler pensare di riuscire a fare un cuore artificiale tutto italiano…
Può svelarci qualche caratteristica?
Sicuramente è molto più piccolo rispetto a quelli descritti, potrebbe essere utilizzato sia nell’uomo che nella donna, ha una grossa componente biologica, proprio come quello francese, quindi potrebbe ridursi la quota di anticoaugulazione. Inoltre ha molte innovazioni tecnologiche che nascono dalla nostra grande esperienza in medicina rigenerativa.
I tempi per vederlo in funzione?
Naturalmente tutto è legato ai finanziamenti che riusciremo a raccogliere… Se ad esempio domani dovessimo avere a disposizione 40/50 milioni di euro, la somma necessaria per passare alla fase di impianto nell’animale, credo che nell’arco di tre anni potremmo essere già pronti per la sperimentazione animale.
E per impiantarlo nell’uomo?
Altri due anni.
Perdoni la banalità della domanda che, sia chiaro, non vuole essere assolutamente una critica… Ma visto che il cuore sembra un organo concettualmente molto semplice, formato da due pompe, come mai in tutti questi anni la ricerca mondiale non ha ancora partorito una risposta affidabile e definitiva?
In effetti si tratta di una vera e propria pompa con delle valvole e un sistema elettrico dove naturalmente c’è il segnapassi che determina la frequenza cardiaca. Adesso, però, le faccio io una domanda. In questo caso, però, provocatoria…
Immaginavo di finire nei guai… Prego…
Se dobbiamo parlare di un sistema artificiale parliamo di un organo che batte dalle 70 alle 100 volte al minuto. Allora le chiedo: quanto crede possa durare l’autovettura migliore al mondo?
Duecentomila chilometri? Dieci anni? Dipende anche dalla cilindrata, dall’utilizzo e dal modello di auto…
Bene, prendiamo allora una tra le migliori marche automobilistiche al mondo, la Ferrari. Mettiamola su un circuito e sviluppiamo un sistema per cui non deve fermarsi a fare rifornimento, cambi di olio, filtri eccetera… La facciamo girare a 100 km all’ora, una velocità di crociera. In 24 ore percorrerà 2400 km, in 10 giorni saranno 24 mila km e in un mese 72 mila. Di conseguenza vuol dire che in soli tre mesi circa l’auto è bella che distrutta, ha esaurito la sua vita… Pensi, allora, cos’è un cuore che, a differenza dell’auto che dopo un utilizzo più o meno lungo nel corso della giornata resta ferma e tutta la notte rimane inoperosa nel garage di casa, lavora senza fermarsi mai. Ecco, dunque, la difficoltà a trovare un sistema meccanico in grado di lavorare 24 ore al giorno per anni e anni senza mai fermarsi. Lei ha ragione, concettualmente il cuore ha un sistema semplice ma nello stesso tempo è sottoposto a un’usura spaventosa.
È solo nell’usura il problema oppure ce ne sono altri?
C’è anche quello degli investimenti limitati. Se ad esempio il John Kennedy della situazione, nel suo scontro ideologico con l’Unione Sovietica anziché andare sulla luna avesse deciso di sviluppare il cuore artificiale, adesso probabilmente ci troveremmo con un prodotto molto più sofisticato e affidabile di quello attuale… Sono scelte politiche…
A proposito di scelte politiche, che ne pensa dei continui tagli alla sanità?
Anche questo è un discorso d’antan… La verità è che si fanno continuamente tagli lineari, in realtà bisognerebbe imparare da regioni che spendono un po’ meglio, penso ad esempio al Veneto, alla Toscana e all’Emilia Romagna, e trasferire queste esperienze ad altre regioni. Dire invece a tutti di tagliare del 10% le spese non ha senso. Ci sono regioni, infatti, che già lavorano al limite quindi non c’è nessuno spreco da eliminare…
C’è poi anche il limite degli accertamenti diagnostici, recentemente annunciato dal governo, che di fatto si scontra con la cosiddetta medicina difensiva. Con i tagli annunciati nascerà un bel contenzioso…
Questo è un altro grosso problema. Come spesso accade in Italia, infatti, i problemi finiscono per accavallarsi uno sull’altro… Il contenzioso legale medico-paziente da noi è assolutamente esasperato. Basta pensare che l’Italia è uno dei soli tre paesi al mondo in cui il medico può essere condannato per omicidio colposo… In nessun’altra parte del mondo esiste una cosa simile. Esiste un risarcimento economico sul danno causato per inadempienza professionale del medico, ma non c’è l’omicidio colposo…
Come se ne esce allora?
Il problema è che in Italia si vuole una sanità di tipo nord americano, cioè all’avanguardia, con grande professionalità e attenzione nei confronti del paziente ma con buste paga a livello del sistema sanitario sudamericano… Oggi diventa difficilissimo per un medico assicurarsi in quanto una polizza costa 2/3 mesi di stipendio l’anno… È una situazione paradossale.
Qual è oggi la patologia cardiaca più diffusa in Italia?
Attualmente, se parliamo di attenzione cardiochirurgica, tra i primi posti troviamo lo scompenso cardiaco e la stenosi valvolare aortica negli anziani.
Le cause?
Per quanto riguarda la patologia degenerativa della valvola aortica il tutto è legato all’invecchiamento della popolazione, mentre lo scompenso cardiaco è il connubio tra due momenti. Da una parte il fatto che fortunatamente più pazienti sopravvivano all’infarto miocardico; dall’altro il fatto che andando avanti negli anni finiscono per sviluppare una insufficienza cardiaca cosiddetta post ischemica.
Quali sono oggi i veri nemici del cuore?
Le nostre cattive abitudini di vita…
Cioè?
Fumo, dieta scorretta e sedentarietà.
Cosa consiglia allora?
Innanzitutto 20 minuti di camminata veloce ogni giorno. Per capirci se camminiamo insieme a un amico quando gli parliamo dobbiamo avere la voce affaticata. Per i più pigri anche tre volte a settimana può andar bene… Poi spazio alle famose cinque porzioni di frutta e verdura durante la giornata, riducendo contestualmente gli introiti di carne rossa, formaggi grassi e altri alimenti che tendono a alimentare l’incremento della colesterolemia. Infine bisogna evitare il fumo.
Quali segnali, invece, devono metterci in allarme?
È sempre pericoloso indicare i sintomi… Dopo averli letti oppure ascoltati in televisione, infatti, solitamente li avvertiamo tutti… Sicuramente però ci sono tre segnali che devono farci drizzare le orecchie. La difficoltà di respiro, cioè la dispnea, il respiro affannoso sotto sforzo. Ad esempio, salendo una rampa di scale che fino a qualche mese prima non ci aveva dato alcun problema, di colpo ci affatica. Poi il dolore anginoso, cioè quel dolore toracico, soprattutto esacerbato dallo sforzo o dall’esposizione al freddo, soprattutto quando si irradia verso il braccio. Insomma quel dolore costrittivo che si avverte dietro lo sterno. Infine il terzo segnale a cui destare attenzione è l’astenia, la facile stancabilità, quando sentiamo i muscoli delle gambe cedere più repentinamente. In questi casi dobbiamo rivolgerci al nostro medico di base ed eventualmente eseguire un ecocardiogramma o un test da sforzo.
Come si spiegano alcune morti d’infarto in soggetti apparentemente sani, cioè sportivi e comunque non sedentari, non fumatori e rispettosi della sana alimentazione?
Per la verità tutti siamo sani prima che ci diagnosticano la malattia o moriamo… Battuta a parte, purtroppo la malattia coronarica può a volte non dare sintomi e quindi esordire in maniera molto brusca… Oppure, come spesso avviene nel calcio o in altre attività sportive, la morte è legata ad anomalie congenite, al sistema elettrico del cuore oppure alle coronarie stesse.
Chi pratica lo sport a quali esami dovrebbe sottoporsi?
Gli esami principe sono l’ecocardiogramma e il test da sforzo. Un elettrocardiogramma a riposo, infatti, può anche non dirci nulla.
Lei cosa ruberebbe all’America?
L’estremo pragmatismo e la capacità organizzativa. E naturalmente i finanziamenti…
A un aspirante cardiochirurgo, invece, cosa consiglierebbe?
Di riflettere attentamente prima di intraprendere la strada della cardiochirurgia perché, come molte altre professioni, è totalizzante. Soprattutto nei primi 10-20 anni ti assorbe completamente, di conseguenza ci vuole una dedizione completa e assoluta.
Quali requisiti deve avere un bravo cardiochirurgo?
Deve essere una persona che abbia la capacità fisica di tollerare alti carichi di lavoro, quindi ci vuole anche una buona preparazione fisica. Inoltre deve essere molto curioso, affascinato dalla possibilità di risolvere in laboratorio alcune problematiche. Ovviamente un minimo di manualità ci vuole, ma soprattutto occorre molta ma molta buona volontà.
Cosa bolle in pentola nel vostro centro oltre al la banca dei tessuti e il cuore artificiale?
Alcuni interventi specifici che vorremmo realizzare, però per una questione scaramantica preferisco non parlarne… Inoltre abbiamo in serbo di decellularizzare un cuore in toto e ripopolarlo con le cellule del potenziale ricevente. Questo sarebbe un grossissimo successo, il mio laboratorio ci sta lavorando ma anche in questo caso abbiamo bisogno di finanziamenti e di molta fortuna.
Fede e scienza a suo avviso possono andare d’accordo?
Più vado avanti nel mio lavoro e più mi accorgo che i percorsi di alcuni pazienti sono in qualche modo segnati… Noi siamo solo degli strumenti… Ovviamente ognuno in base alla propria formazione culturale può chiamarlo come vuole: destino, fato, provvidenza, eccetera. Attenzione, però: ciò non scarica noi medici dalla responsabilità di farci trovare sempre preparati e puntuali.
Lei è credente?
Sì, ma non sono praticante.
Le capita mai di pregare prima di un intervento?
No, ma lo faccio in altri momenti della giornata.
Il suo errore professionale più grave?
Oggi la mortalità in cardiochirurgia è molto bassa e i pazienti in genere non muoiono mai per cause cardiache ma per complicanze di organo esterno al cuore. Il paziente operato al cuore, infatti, difficilmente muore perché subisce un infarto intraoperatorio o per altre cause cardiache, bensì per una insufficienza renale, un’infezione o un’embolia cerebrale. Devo dire che la capacità di saper porre l’indicazione chirurgica ottimale gioca un ruolo importante. Se andiamo a rivedere in genere i pazienti che perdiamo è perché siamo stati troppo entusiasti nel porre l’indicazione, si vorrebbe salvare chiunque… A volte, però, in questo impeto siamo un po’ troppo affrettati. Se questa è una colpa sicuramente rappresenta il mio errore più grave…
L’intervento più difficile?
Penso ad esempio al quarto o al quinto intervento sullo stesso paziente per sostituire valvole aggredite da infezioni e dove l’anatomia del cuore era fortemente alterata.
C’è qualcosa che cambierebbe riavvolgendo il nastro della vita?
Come tutti quelli che sono stati estremamente impegnati nella propria professione ho chiaramente sottratto tempo ai miei figli. Infatti come può vedere nel mio studio sono circondato dalle loro foto… Questo è il mio grosso cruccio, però dall’altra parte non avrei potuto fare tutto ciò che ho fatto.
Senza camice e bisturi che tipo è Gino Gerosa?
Mi piace tantissimo camminare e praticare gli sport di montagna. Inoltre ho una grande fantasia che mi ha aiutato molto nella ricerca. Per cui penso che in una seconda vita potrei tranquillamente fare lo sceneggiatore oppure lo scrittore…
UN FUORICLASSE INTERNAZIONALE
Gino Gerosa è nato a Rovereto il 27 ottobre 1957. Si è laureato in Medicina e Chirurgia a Verona specializzandosi in Cardiochirurgia. Ha lavorato a Londra per due anni sotto la guida del professor Donald Ross.
Nel 2000 diventa professore associato di Cardiochirurgia presso la facoltà di Medicina di Padova e nel dicembre 2001 esegue il primo intervento in Italia di rivascolarizzazione miocardica a cuore battente attraverso l’endoscopia con il sistema robotico.
Nel marzo 2002 effettua la prima applicazione clinica di trapianto di cellule staminali autologhe prelevate dallo stesso paziente e iniettate nel cuore a torace aperto come terapia per l’insufficienza cardiaca post-ischemica.
Nel febbraio 2003 diventa direttore del centro di Cardiochirurgia V.Gallucci dell’Azienda ospedaliera/università di Padova e nello stesso anno esegue il primo trapianto in Italia di cuore artificiale Incor 1.
Nel 2004 esegue il primo intervento in Italia utilizzando un sistema robotico per il trattamento della fibrillazione atriale isolata.
Nel 2007 esegue il primo impianto in Italia di un cuore artificiale] totalmente impiantabile (Total Artificial Heart). Il dispositivo, denominato Cardio West, consiste in due camere di poliuretano ognuna divisa in due da un setto elastico che, grazie a un dispositivo pneumatico, pompa il sangue nelle arterie al posto dei ventricoli nativi malfunzionanti.
Il 12 settembre 2011 realizza la rimozione del cuore artificiale Cardio West (dopo 1300 giorni dall’impianto) per sostituirlo con un cuore vero proveniente da un donatore.
Nel 2015 ha realizzato per la prima volta al mondo un intervento microinvasivo di bioprotesi valvolare aortica e riparazione della valvola mitralica a cuore battente. L’intervento, eseguito entrando dalla punta del cuore, ha consentito il completo recupero del paziente e la risoluzione totale dei suoi problemi cardiovascolari. È autore di oltre 200 pubblicazioni.