SE NON LUI, CHI?
Dopo che il presidente francese Macron ha suggerito a Francesco di chiamare Putin, Kirill e Biden, una mezza apertura del Cremlino c’è stata. D’altra parte la predisposizione della Santa Sede a tessere iniziative di pace, è risaputa
“L’invocazione della pace non può essere soppressa: sale dal cuore delle madri, è scritta sui volti dei profughi, delle famiglie in fuga, dei feriti o dei morenti. E questo grido silenzioso sale al Cielo. Non conosce formule magiche per uscire dai conflitti, ma ha il diritto sacrosanto di chiedere pace in nome delle sofferenze patite, e merita ascolto. Merita che tutti, a partire dai governanti, si chinino ad ascoltare con serietà e rispetto. Il grido della pace esprime il dolore e l’orrore della guerra, madre di tutte le povertà”. Il grido della pace di papa Francesco non poteva che essere forte e chiaro, quando, lo scorso 25 ottobre, lo ha proclamato nel suo discorso alla Preghiera per la pace organizzata, come ogni anno, dalla Comunità di Sant’Egidio a Roma, di fronte ai leaders religiosi del mondo.
Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. È un fallimento della politica e dell’umanità. Sono convinzioni, spiega Francesco, che scaturiscono dalle lezioni dolorosissime del secolo ventesimo, e purtroppo anche di questa parte del ventunesimo. “Oggi, in effetti, si sta verificando quello che si temeva e che mai avremmo voluto ascoltare: che cioè l’uso delle armi atomiche, che colpevolmente dopo Hiroshima e Nagasaki si è continuato a produrre e sperimentare, viene ora apertamente minacciato”. Ma il progetto di Dio è un progetto di pace e non di sventura. Un dono che deve essere accolto e coltivato dagli uomini e dalle donne. “Non lasciamoci contagiare dalla logica perversa della guerra; non cadiamo nella trappola dell’odio per il nemico. Rimettiamo la pace al cuore della visione del futuro, come obiettivo centrale del nostro agire personale, sociale e politico, a tutti i livelli. Disinneschiamo i conflitti con l’arma del dialogo”.
Ecco, il dialogo. Che vede in prima fila papa Francesco, e ovviamente la macchina diplomatica del Vaticano. Dopo che il presidente francese Macron ha suggerito al papa di chiamare Putin, Kirill e Biden per una possibile mediazione, una mezza apertura del Cremlino c’è stata. E il cardinale segretario di Stato, cardinale Parolin, ha detto: “Non sappiamo cosa significano queste parole, quale fondamento hanno e quale sviluppo potranno avere. Ma se c’è una piccola apertura certamente ne approfitteremo”.
Molti sperano che sia proprio Francesco l’artefice di una possibile, seppur difficile, pace. Lo sperano i popoli, ma lo desidera la gran parte delle cancellerie di mezzo mondo. D’altro canto la predisposizione della Santa Sede a tessere iniziative di pace, è risaputa. Il caso più noto è l’iniziativa che prese san Giovanni Paolo II nella ex Jugoslavia, per la guerra del Kosovo, e spesso la stessa Comunità di Sant’Egidio, chiamata non a caso l’Onu di Trastevere, ha svolto iniziative di pace, come quella coronata da successo in Mozambico, dove un ruolo forte di mediatore lo ebbe l’attuale presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi.
Ma ce ne sono ancora altre. San Giovanni XXIII si adoperò moltissimo per fermare nel 1962 la crisi di Cuba, tra l’America di John Fitzgerald Kennedy e la Russia di Nikita Krusciov. Il messaggio di pace e di rinnovamento del “papa del sorriso” influenzò moltissimo i leader delle due nazioni a un passo dalla guerra nucleare. Che si fermarono giusto in tempo da un conflitto che avrebbe avuto esiti indescrivibili per tutto il pianeta. Nel 1999, ad esempio, con la missione dell’arcivescovo Tauran, il ministro degli esteri vaticano, a Belgrado, c’è il tentativo di portare un messaggio personale di Wojtyla per Milosevic, con la richiesta di una tregua per Pasqua e la cessazione immediata delle operazioni di pulizia etnica. E ancora in Iraq. Sempre san Giovanni Paolo II, nel 2003, inviò il cardinale Pio Laghi a incontrare il presidente George W. Bush e a chiedergli di non invadere l’Iraq e abbattere il regime di Saddam Hussein. Tentativo, in quel caso, andato a vuoto. Ma ci provò.
Nell’appello di pace firmato a Roma il 25 ottobre dai rappresentanti delle varie religioni, si percepisce l’ansia del momento. “Con ferma convinzione diciamo: basta con la guerra! Fermiamo ogni conflitto. La guerra porta solo morte e distruzione, è un’avventura senza ritorno nella quale siamo tutti perdenti. Tacciano le armi, si dichiari subito un cessate il fuoco universale. Si attivino presto, prima che sia troppo tardi, negoziati capaci di condurre a soluzioni giuste per una pace stabile e duratura. Si riapra il dialogo per annullare la minaccia delle armi nucleari”.
Siamo di fronte a un bivio, dicono ad alta voce i leader religiosi. Essere la generazione che lascia morire il pianeta e l’umanità, che accumula e commercia armi, nell’illusione di salvarsi da soli contro gli altri, o invece la generazione che crea nuovi modi di vivere insieme, non investe sulle armi, abolisce la guerra come strumento di soluzione dei conflitti e ferma lo sfruttamento abnorme delle risorse del pianeta.
Il mondo è in fermento. La guerra non è lontana dalle nostre case. La pace sembra essere un’utopia irraggiungibile. Eppure i credenti, fedeli alla profezia di Isaia, dove “Egli giudicherà tra nazione e nazione e sarà l’arbitro fra molti popoli; essi, con le loro spade, costruiranno vomeri di aratro e, con le loro lance, falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra e non impareranno più la guerra”, sanno che ogni spazio di dialogo può essere possibile.
Ce la farà papa Francesco a imprimere la svolta della pace? E se non lui, chi?