Fra Mille e cento e Mille e duecento, accade qualcosa di prodigioso. Nel cuore dell’Italia, Francesco, un ragazzo semplice e realista, figlio di un mercante e abituato al contatto con la gente comune, inizia a rivolgersi a Dio nel dialetto umbro, anziché in latino, ed a predicare in volgare. Esplode, intorno al 1224, un razzo di luce nella notte, il “Cantico delle creature”, una composizione ritmica, alla maniera dei salmi biblici. Tale testo, ricco di latinismi e non esente da influssi toscani e francesi, costituisce lo scritto poetico più antico della letteratura italiana di cui si conosca l’autore.
I critici ritengono che il Cantico di Francesco, per l’ammirazione estatica della bellezza cosmica, si elevi ad autentica poesia. Una poesia molto simile alla naturalezza dei Vangeli, in cui il Cristo spiega le verità eterne con parabole accessibili a tutti, desunte dalla vita dei contadini e dei pescatori. In ambedue i casi, siamo di fronte ad un sentimento semplice e profondo, espresso attraverso la natura.
Il “Cantico delle creature” è uno scritto rivoluzionario. Sul piano linguistico, per il coraggio di usare, per la prima volta, in un inno religioso, la lingua corrente della gente. Sul piano spirituale, in quanto, dal disprezzo del mondo, tipico di alcune tendenze medievali, si passa a celebrare la bontà del creato e l’utilità benefica delle creature nei riguardi dell’uomo. Francesco guarda il mondo con l’occhio ottimista della Bibbia, secondo cui “tutto è buono”. Egli considera l’universo come qualcosa di meraviglioso e di straordinario nella sua armonia. Anzi, la creazione stessa diventa, per Francesco, un efficace mezzo di lode al Creatore. Nella concezione francescana, l’uomo non è concepito tanto al vertice di una piramide creativa, secondo la mentalità teologica, ma è inserito in una rete universale di esseri legati da reciproca fraternità, tanto da poter essere chiamati fratelli e sorelle. Così, il sole è definito “bellu e radiante cum grande splendore”, le stelle “clarite et preziose”, l’acqua “multo utile et humile et pretiosa et casta”, il fuoco “è bello et iocundo et robustoso et forte”. Tutto è buono, tanto che il santo loda il Signore per qualsiasi tipo di clima: “Per aere et nubilo et sereno et onne tempo”.
L’ottimismo di Francesco è così radicale che egli ringrazia Dio anche per “sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare”. Per lui, dunque, anche la morte e la sofferenza hanno un senso e vanno messe in relazione con la bontà divina. La morte è benefica perché ci permette di raggiungere Dio. È stato scritto che questo modo di concepire la realtà negativa, sotto l’aspetto della sua naturale e ineludibile fatalità, anziché come un’amara conseguenza del peccato, proviene dal Paganesimo, per il quale l’esistenza è un in-treccio inestricabile di gioie e dolori che traggono significato le une dagli altri. Ma, proprio per questo, l’umanesimo francescano, risulta vicino al modo di sentire della nostra gente. È evidente l’influsso del suo Cristianesimo, ottimista e fiducioso, sulla costruzione della religiosità degli italiani e sul modellamento del loro carattere aperto e fiducioso.
“I tratti distintivi della religiosità francescana, – commenta lo studioso francese Emile Gebhart – la libertà di spirito, la serenità giocosa, la familiarità, formeranno per gran tempo l’originalità del Cristianesimo italiano, così diverso dal Cristianesimo farisaico dei Bizantini, dal fanatismo degli Spagnoli, dal dogmatismo scolastico della Germania e della Francia”. Luciano Verdone