QUANTO SONO STATA FORTUNATA

By Paola Severini
Pubblicato il 2 Giugno 2014

Per tutte le donne e gli uomini del mondo il rapporto con il papa, il capo dei cattolici, è un rapporto certamente di conoscenza e spesso di rispetto e di “riconoscibilità”. Per gli italiani è un rapporto di familiarità, per i romani, infine, e per tutti coloro che vivono nella capitale è sicuramente molto di più: il papa è parte essenziale della loro vita. Ho detto il papa e avrei dovuto dire “i papi” perché quando tra noi cittadini di Roma, si parla del papa, viene immediato chiedere e chiedersi, “quale e quanti?”. Quanti sono stati i papi con i quali abbiano convissuto, abitando nella stessa città? Perché pure se la storia di ognuno di noi è unica spesso si intreccia con quella di un papa.

Avevo sei anni l’11 ottobre 1962, quando a casa dei miei nonni, dove era appena stata comperata la televisione – a casa mia non c’era ancora – vidi e sentii papa Roncalli che parlava a tutto il mondo al termine della prima giornata del concilio Vaticano II. Per anni e anni avrei rivisto quelle immagini e riascoltato quelle parole, fino a impararle a memoria. Per me, però, a differenza magari di altri, il “discorso della luna” resta indissolubilmente legato all’immagine di tutta la mia famiglia (riunita quella sera), al sorriso di mio padre, alle parole di mia nonna, che era il vero capofamiglia, e che infatti, volle darmi lei, la “carezza del papa”. E il ricordo resta legato alla parola tenerezza: perché il carezzare è proprio l’opposto dell’afferrare, che è invece un gesto attraverso il quale esercito un dominio, come quando, da bambina afferravo qualcosa senza chiedere il permesso.

Nel suo discorso al mondo, quella sera, papa Giovanni non disse: “Salutate i vostri figli” ma “date una carezza ai vostri bambini e dite: questa è la carezza del papa”. E quando mai un papa aveva dato carezze? Un papa dava ordini, perlopiù, un papa lanciava segnali, il papa era lontano, anche per noi che, abitando nel quartiere adiacente il Vaticano, potevamo vedere la sua finestra dal terrazzo condominiale e immaginarlo lì, con tutti i cardinali e le guardie svizzere intorno.

Dopo cinquant’anni, come dice nell’intervista che ho realizzato per la Rai, il segretario di papa Giovanni, oggi cardinale Loris Capovilla, “un filo che non si interrompe, il filo della provvidenza”, un altro papa parla di tenerezza e di carezze, ed è papa Francesco, l’ultimo dei “miei papi”, un papa “vicino”, che tocca e accarezza non soltanto attraverso la televisione ma che cerca il contatto fisico, perché “non bisogna avere paura della tenerezza”.

E da allora, papa Giovanni cominciò a fare parte della mia vita, attraverso questa manifestazione di tenerezza, che mi accompagnerà negli anni a venire, come se fosse stato un rapporto con un grande amico sempre presente, anche, e soprattutto, dopo la sua morte, e la morte di mia nonna e dei miei genitori.

Per gli anni seguenti, che sono stati gli anni più importanti nella formazione della mia personalità, ho vissuto come fosse possibile non diventare competitivi, come attraverso gesti semplici, dignitosi, sobri, affettuosi e sempre teneri, si potesse aiutare chi non ce la fa, chi non riesce, chi non può perché non è nato o in ogni caso non è potuto essere come colui o colei che può (fisicamente, intellettualmente, economicamente). Ho imparato, e negli anni a venire ho poi cercato di insegnarlo a mia volta, ai miei figli, ai miei allievi, ai miei lettori e ascoltatori e ora infine a mio nipote, che la diversità è ricchezza, che le comunità di eguali, di pari, sono destinate al fallimento e all’estinzione e che le piccole felicità quotidiane si trovano nelle diverse caratteristiche che ognuno di noi può esprimere.

La vita mi portò via da Roma e non sentii come avevo sentito di Giovanni XXIII, “vicini di casa” i papi seguenti, pur continuando in quella che è stata la mia militanza, per i diritti dei più deboli.

Ero però a Roma in un altro ottobre, nel 1978, già mamma del mio primo figlio, quando assistei, in piazza San Pietro alla proclamazione del secondo papa Giovanni, stavolta Giovanni Paolo II, e non avrei mai immaginato di poter conoscere personalmente questo grande uomo e di poter parlare con lui accompagnando, guidati dal cardinale Ersilio Tonini, tanti ragazzi handicappati che chiedevano al papa un aiuto per una vita più degna.

Dignità è la parola che mi viene in mente quando penso a papa Wojtyla, dignità nell’affrontare l’handicap, nel convivere con il dolore, nel ricercare un posto al mondo che sia quello, il nostro, un posto per ognuno. Per esempio gli amici dell’Unitalsi, anche in Abruzzo, che sono una delle associazioni che conosco meglio e da più tempo: so quanto e come mettono in pratica, ogni giorno, l’insegnamento di colui che considero il “mio secondo papa”, la dignità. Gli anni del pontificato di Giovanni Paolo II sono stati gli anni centrali della mia maturità e del confronto con la realtà: lavorare nel terzo settore richiede pazienza e molta fede, e, soprattutto, il non perdere mai la curiosità di conoscere e poi di metterti a disposizione di chi hai davanti, che sia un tuo familiare oppure uno sconosciuto. Io sento di fare parte di questo mondo straordinario, come un piccolissimo tassello, e quando ascolto la gente che mi parla dei papi e sorride, capisco quanto sono stata fortunata ad avere avuto due “vicini” così.

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