PIEVE DI GRAZIA

La bellissima storia di don Luigi Verdi
By Gino Consorti
Pubblicato il 2 Settembre 2019

Il fondatore della Fraternità di Romena, situata in una splendida valle in provincia di Arezzo, dopo un anno di congedo, nel 1991 ha chiesto di tornare a svolgere il suo ministero in una vecchia chiesa di campagna abbandonata… Oggi è diventato uno straordinario luogo EUROPEO di incontro per migliaia di persone alla ricerca di una qualità di vita più autentica

Arrivare fin quassù non è stata una passeggiata, ma certamente ne è valsa la pena. Sia per la bellezza dei luoghi che testimoniano la grandezza di Dio, sia per colui che ha deciso di abitare una pieve abbandonata riportandola all’antico splendore e facendone un luogo di incontro dove meditare, pregare, vivere il silenzio. E soprattutto annusare l’aria che, come un soffio, ti pulisce l’anima. Sto parlando della Fraternità di Romena, nel Casentino, situata in comune di Pratovecchio Stia (Arezzo) e del suo fondatore nonché responsabile don Luigi Verdi, un prete che ti resta dentro come l’incanto di questa valle fiabesca.

La pieve romanica di Romena, un bellissimo gioiello di pietra appoggiato nella campagna toscana che per secoli ha rappresentato un punto di riferimento per viandanti, pellegrini e contadini, oggi è diventato un prezioso crocevia per tantissimi viaggiatori del nostro tempo. Un luogo d’incontro per migliaia di persone che hanno scelto di trasformare le proprie fragilità in una potenza coinvolgente. Un luogo speciale dove ascoltarsi e trovare, nell’intimo, la soluzione per riprendere il cammino della vita. Il tutto circondati da tanta naturalezza e semplicità, qualità che contraddistinguono don Luigi, un “padrone di casa” diretto e profondo come pochi, autore tra l’altro di un bellissimo libro, Sempre (Chiarelettere) insieme a Maurizio Maggiani. Un’infanzia tribolata, i segni permanenti di una menomazione fisica, la scelta di rispondere alla chiamata di Dio. Poi, il buio dell’abisso che gli fa appendere al muro, per un anno, la stola da prete. Quindi, zaino in spalla, l’esperienza umana fra i campesinos, la scelta del deserto e infine la risurrezione… Trascorsi dodici mesi e spolverata la stola, infatti, si ripresenta dal vescovo di Fiesole comunicandogli che don Luigi Verdi è tornato… Pronto a frequentare la strada senza alcun tipo di “gabbia” mentale, con l’anima rischiarata e ancor di più innamorato di Dio. Al suo vescovo, però, don Luigi avanza una richiesta particolare: svolgere il ministero nella pieve di Romena, edificata nel 1152. Un luogo che aveva dato ospitalità a generazioni di pellegrini, tra cui anche il sommo poeta Dante e Gabriele d’Annunzio. La risposta del presule, vista anche la stima che ha dell’uomo e del prete, non si fa attendere e naturalmente è positiva. In piedi, però, c’è rimasta solo la pieve pur con i segni del tempo… Il resto, canonica compresa, è infatti tutto diroccato. Siamo nel 1991: momento don Luigi e i suoi compagni di viaggio danno il via alla ristrutturazione della canonica, della casa colonica, all’epoca abitata dal fattore che amministrava i terreni intorno alla pieve e della vecchia stalla, dove oggi sorge un bellissimo auditorium di circa 400 posti e alle cui pareti campeggiano alcune splendide icone in ferro realizzate da don Luigi. Successiva-mente si aggiungono la Via della Resurrezione, una camminata meditativa con otto tappe scandite da altrettante icone, il punto ristoro, la libreria e uno spazio speciale, la Sala del mandorlo, dove l’immagine del Mandorlo di Vincent van Gogh si sfuma lungo le pareti in un gioco di ombre che abbracciano coloro che si trovano all’interno. È dedicata ai genitori che quotidianamente convivono con il dolore più lacerante: la perdita di un figlio. Il gruppo Nain, che prende il nome dal luogo vicino Nazareth dove Gesù, mosso a compassione, riportò in vita il figlio della vedova, s’incontra una volta al mese seguendo un percorso di temi che si sviluppa nel corso dell’anno.

Insomma, qui tutto è veramente speciale e coinvolgente, proprio come don Luigi, un umile servo di Dio che non vuole saperne di smettere di camminare. Un uomo che ha fatto della fragilità la sua forza e della strada la sua compagna di viaggio. Un prete che rifugge formulette tascabili, sermoni ampollosi e noiosi ed eccessi di spiritualità. E soprattutto ha scelto di abitare la vita e le domande dell’uomo. Ascoltiamolo.

Chi è don Luigi Verdi?

Un prete diocesano che dopo sette anni di sacerdozio è andato in crisi… Aggiungerei per fortuna…

Perché?

Dopo aver chiesto e ottenuto un anno di congedo ho preso lo zaino e per tre mesi sono andato in Bolivia dai campesinos. Quindi altri tre mesi in Algeria, sulla via di Charles de Focauld… Una volta in Italia, poi, ho detto al mio vescovo che avrei voluto continuare a fare il prete, chiedendo di andare a Pratovecchio, precisamente nelle pieve di Romena. L’idea era dare una mano a chi attraversava un periodo difficile, proprio come era accaduto a me. La crisi vera, però, l’ho vissuta un mese prima di tornare…

Il motivo?

Dovevo capire cosa ci fosse alla base del mio malessere.

Come è andata?

I problemi erano due: la timidezza e l’aspetto fisico. La mia mamma, in gravidanza, aveva preso una medicina contro la nausea, il Talidomide. In quegli anni, però, le donne trattate con quel farmaco davano alla luce neonati con gravi alterazioni congenite dello sviluppo degli arti, nascevano senza braccia o gambe o con la riduzione delle ossa lunghe. Io ho avuto fortuna ritrovandomi “solo” con le dita mozzate e un problema al piede. “Contrattempi” che mi hanno comunque permesso di muovermi e utilizzare le mani.

Quanto ha pesato nell’adolescenza questa menomazione?

Tanto. Da bambino quando mi mettevo il costume per andare al mare tutti mi prendevano in giro… Quindi da adolescente iniziai ad andare in spiaggia con i calzettoni, li toglievo solo per fare il bagno. Le dita mozzate, invece, cercavo di nasconderle mettendole in tasca. E naturalmente nascondevo anche gli occhi… Poi, un giorno, ho detto basta. Dopo aver letto un salmo della Bibbia, quello della pietra scartata diventata pietra angolare, mi sono chiesto: Perché le cose più brutte di me, le mani, il piede e gli occhi bassi, non possono diventare il meglio di me? Così per un anno intero mi sono messo a guardare tutti negli occhi, senza scappare o abbassare lo sguardo…

Con grande sacrificio immagino…

Aver paura delle nostre fragilità la ritengo una cosa assolutamente stupida, quando uno ha un difetto la prima cosa che fa è nasconderlo, senza sapere invece che lo rende più visibile… E più si vede più sarai preso di mira dagli altri… Ora, invece, non può distruggermi più nessuno, non ho più paura di guardare la gente negli occhi o dire che le mie mani fanno schifo… Se avessi continuato a nasconderle e ad abbassare gli occhi avrei vissuto l’inferno. Quando Gesù dice che la tua debolezza è la tua forza dice qualcosa di meraviglioso.

Con quelle mani, infatti, hai realizzato delle bellissime opere…

Dopo aver rimosso questo macigno dalla mia vita ho iniziato a creare opere e icone e se oggi qualcuno mi chiedesse quali sono le cose più belle che ho sicuramente risponderei gli occhi e le mani… Per certi versi questo è il messaggio della mia vita, cioè trasformare una “maledizione” in benedizione. Per maledizione ovviamente intendo la mia malformazione che mi aveva prodotto una crisi profonda e dalla quale, però, ne sono uscito tirandoci fuori qualcosa di buono.

Che ricordo hai dei tuoi genitori?

La mia mamma era molto timida, riservata, sottomessa e anche un po’ impaurita… Mio padre, invece, era un guerriero, faceva il boscaiolo. Come spesso accade, quindi, con due genitori dai caratteri così opposti i figli fanno una fatica cane a mettere un po’ di armonia dentro di loro… Ho dovuto lottare con me stesso, anche se la battaglia vera l’ho combattuta sulla decisione di concedere o meno il perdono al mio babbo…

Perdonarlo per cosa?

In casa gridava, beveva e picchiava… Per un po’ l’ho sopportato, poi ho iniziato a odiarlo…

Quale percorso hai dovuto superare prima di giungere al perdono?

Per prima cosa ho cercato di capire. Perché grida? Perché mi picchia? Un giorno mi ha raccontato che era il primo di cinque fratellini e che suo padre era morto quando lui aveva 10 anni. Di conseguenza aveva fatto lui da babbo ai quattro fratelli e per procurare loro un pezzo di pane iniziò ad andare nel bosco a tagliare la legna. Conosciuti i fatti, dunque, tutto mi è stato più chiaro. Era normale che avesse tanta rabbia dentro. La prima cosa da fare, pertanto, è capire, che non vuol dire, però, giustificare. Cioè devi essere consapevole che tutte le persone sono sacre, ma l’errore va fermato. Quindi, proprio come ci ricorda Gesù, ho riflettuto sul mio odio per lui. Anche perché ho un istinto molto violento, a volte se mi arrabbio non riescono a tenermi neanche tre persone…

Ti capita spesso…?

Ad esempio quando vedo prendere in giro un disabile oppure una persona timida messa in mezzo dal “branco”. Per fortuna facendo il prete queste cose mi capitano poco. In pratica nella mia mente riaffiorano tutte le offese e le situazioni umilianti vissute da bambino. La lotta vera, infatti, non è con chi ci ha fatto del male ma con noi stessi per non diventare come lui. Il passaggio difficile da compiere, quindi, è non farsi avvelenare dall’odio, altrimenti sei come lui…

Quando è arrivato il giorno del perdono?

Il mio babbo è morto 10 anni fa. Fu colpito da un ictus e due mesi prima di morire io presi il cosiddetto “fuoco di sant’Antonio”. Temevo che mio padre morisse prima di rivederlo. Ho passato l’intera notte in chiesa a piangere e a “trattare” con Dio…

Cosa gli hai chiesto?

Se è giunta l’ora, gli dissi con tono arrabbiato, prendilo pure, però dammi per favore qualche giorno. Sentivo infatti che mancava ancora un passaggio prima di perdonarlo. Il Signore mi ascoltò… Due giorni prima che morisse andai al suo capezzale e gli dissi: “Grazie babbo per avermi picchiato, grazie per le tue urla…”.

Cosa ricordi in particolare dei suoi modi “sopra le righe”?

Ad esempio quando ero bambino veniva a svegliarmi tirandomi le basette in maniera energica. E poi ci rideva su…

Perché?

Il motivo l’ho capito solo tanti anni dopo. Quando in estate dormiva nel bosco insieme ai cavalli, al mattino, per muoverli, mio padre li prendeva per la criniera… Con me, quindi, era come se giocasse, mi svegliava allo stesso modo dei cavalli… Era il modo per chiamarmi a una nuova giornata mentre io, invece, l’avevo vissuta come una violenza. Tutto ciò mi ha insegnato che le persone ci amano con l’unico modo che conoscono. E se a tuo padre mai nessuno gli ha dato una carezza è normale che abbia, come nel mio caso, quell’istinto stupido…

Come è arrivata la vocazione?

Direi in modo strano… Ero il più giovane distributore della provincia di Arezzo del quotidiano comunista l’Unità, non andavo mai in chiesa però frequentavo l’oratorio. Lo facevo solo per giocare a basket e incontrare qualche amico. Lì, però, ho conosciuto un prete normale…

Che intendi per normale?

È difficile oggi trovarne uno normale, cioè non troppo spiritualista e nemmeno noioso. Lo definisco normale perché stava con me senza chiedermi niente, non voleva convertirmi. Come dice il Cantico dei cantici nelle storie d’amore ci s’innamora per come ti muovi. C’è un passaggio che dice come sono belli i tuoi piedi nei sandali principessa. Io quindi non mi sono innamorato dell’idea di Gesù ma di come camminava, di come piangeva, di come lavava i piedi agli amici, di come toccava la bara di un bambino morto. Alla fine, dunque, mi sono innamorato dei gesti spontanei di quel prete.

Quando hai detto che volevi entrare in seminario quale reazione c’è stata in famiglia?

Mio padre si è arrabbiato, come tutte le cose all’inizio non capisci… Eravamo cinque fratelli e l’unico che aveva fatto studiare ero io. Avendo quel difetto alle mani e ai piedi ritenne di aiutarmi nella vita assicurandomi un’istruzione. Quindi, dopo aver fatto una fatica pazzesca per farmi studiare io avevo scelto di fare il prete… Alla fine, però, vista la mia felicità e toccato con mano ciò che avevo creato ha gioito pure lui.

Come nasce la Fraternità di Romena?

Parte tutto dalla mia crisi e dall’idea di creare un luogo dove aiutare le persone con problemi simili… Sono partito dalla bellezza e dal sacro abitando questa stupenda pieve romanica. E subito mi è venuta in mente la storia del figliol prodigo. Se uno, infatti, si perde, dice il Vangelo, prima rientra in se stesso, poi chiede perdono a Dio e poi torna a casa. Ho iniziato a organizzare alcuni corsi nei fine settimana e da lì, pian piano, è nato il mondo della Fraternità di Romena.

Chi bussa oggi alla vostra porta?

All’inizio veniva gente che viveva lontana dalla Chiesa, oggi invece arrivano sempre più preti, suore, frati, comitive organizzate dalle parrocchie…

È forse il segno del cambiamento di una Chiesa in cammino?

Spero proprio di sì, la Chiesa deve pensare a qualcosa di nuovo. E il nostro è un luogo di sperimentazione… Ovviamente tutti i mutamenti si portano dietro qualche imperfezione, ma chi se ne importa, intanto proviamo a cambiare.

Nel corso della vita, fino alla fine e santi compresi, sono tanti i dubbi che affollano il cuore e la mente. Anche tu continui a farti delle domande?

Certo, anch’io sono pieno di dubbi. Il dubbio è fondamentale, però bisogna attraversarlo, occorre arrivare a un punto in cui smettere di ragionare e affidarsi. Io, ad esempio, non sopporto la parola progetti. A mio avviso sono demoniaci…

Addirittura…

Sì, sì… Spesso, infatti, quando si fa un progetto ci si dimentica che lo spazio tra il punto di partenza e quello di arrivo è riempito dalla gente, dallo Spirito Santo… Qui alla Fraternità, infatti, non c’è un progetto, le cose avvengono naturalmente una dopo l’altra. Devo solo ascoltare la gente e pregare lo Spirito Santo affinché mi indichi la strada. Inoltre ho bandito anche la parola accoglienza…

Perché?

Non voglio che passi l’idea di qualcuno che è più bravo e quindi in grado di accogliere gente meno capace… Preferisco utilizzare la parola raccogliere, proprio perché le comunità dovrebbero raccogliere le storie delle persone, le loro ferite, la bellezza, il desiderio di gioia e di speranza che ognuno si porta dentro.

Quando dici che bisogna fidarsi cosa intendi?

Sulla morte, ad esempio, non ci capisco nulla però mi fido di Dio, della vita e so che qualcosa alla fine verrà fuori… Ti dirò di più: ritengo che anche se non ci fossimo noi preti la gente crederebbe lo stesso a Dio, proprio perché è dentro l’essere umano cercare l’infinito… Noi religiosi, quindi, possiamo solo collaborare ad aiutare le persone a cogliere la presenza di Dio in profondità.

Come si fa don Luigi a benedire la vita anche quando il dolore ci sta lacerando? È veramente possibile, come suggerisce Italo Calvino, vedere nell’inferno ciò che non è inferno?

Diciamo intanto che il dolore non si supera. Dire che il tempo coprirà tutto è una grande sciocchezza. In tutti noi, e soprattutto nei genitori che hanno perso un figlio o una figlia, il dolore rimarrà per tutta la vita. Però possiamo trasformarlo. All’inizio è acido, poi pian piano può diventare dolce e quindi pensare a quell’avvenimento, a quel figlio con tenerezza e non più con rabbia. Io sono molto duro con i genitori, non faccio il buono proprio perché ho visto famiglie distrutte dal dolore. Non è vero che il dolore fa crescere, non è per nulla così. Dipende tutto da come vivi quel dolore; più lotti contro un male più ti avveleni. Il dolore, invece, devi lasciarlo scorrere dentro di te come un fiume e quindi farlo andare oltre. La cosa più bella è vedere questi genitori, che avrebbero tutto il diritto di maledire la vita per come gli è andata, rialzarsi e provare anche a benedirla…

Nella vita si ha un compito o un ruolo da portare avanti?

Sicuramente un compito, i ruoli non li sopporto proprio. Svolgere un ruolo è come staccarsi dalle persone. Il mio compito invece è quello del Vangelo di Gesù e cioè di aiutare le persone. A me non interessa convertire la gente, la differenza la fa quella persona che se incontra in strada l’altro bisognoso si ferma ad aiutarlo. Cosa me ne faccio di uno tutto casa e chiesa, con tutte le verità in mano che però ha smesso di “camminare”? Come dice papa Francesco, preferisco un ateo a un cristiano ipocrita.

Ma è possibile dividere il sacro dall’umano?

Il dramma è tutto lì, l’aver separato l’umano dal divino. Per me tutto è sacro: la messa, il mangiare, l’andare nell’orto a zappare, ascoltare le persone, condividere il dolore, pregare… In questa pieve romanica ho addirittura tolto i quadri del quattrocento in quanto la volevo pura com’era. Nei capitelli, infatti, c’è tutta la vita: gli alberi, gli animali, gli uomini, gli angeli, il diavolo…

Come giudichi l’attuale generazione?

Ci hanno fatto credere che siamo la più libera della storia, invece ci hanno preso in giro, siamo quella più schiava. Prima quando ti mettevano le catene te le facevano vedere, oggi invece hanno inventato tanti modi per farti credere che voti chi ti pare, che pensi ciò che ti pare, che puoi andare dove vuoi, eccetera, eccetera. La realtà, invece, è che dipendiamo da tutto e tutti. Dipendiamo da come ci alziamo la mattina, dal giudizio negativo del primo idiota che incontriamo, dipendiamo dalle nostre paure, dipendiamo da tutto ciò che va di moda, dipendiamo dalle nostre ferite, dai nostri dolori…

Come liberarci, allora, di queste “catene invisibili”?

Amando Gesù e restando liberi. Io lo amo perché è l’unico che non si è fatto comprare da nessuno, né dai soldi, né dal potere, né dall’ambizione e neanche dall’emozione… Lo so, è difficile essere liberi, soprattutto esserlo dentro, però non dobbiamo mai smettere di provarci. Tutti cercano la libertà effimera, magari lasciando casa, scappando via… Ma se non sei libero dentro dove credi di andare? Si possono anche trascorrere trent’anni chiusi in carcere restando però liberi come ha fatto Nelson Mandela…

C’è un segreto per scegliere il compagno giusto di viaggio?

Intanto scegliamo chi ha voglia di camminare… Io viaggerei con chiunque ma certamente non ho nessun desiderio di viaggiare verso la morte…

Cioè?

Se uno mi frena la vita, se uno continua a lamentarsi io non ci sto… Se vediamo nostro figlio trascorrere le giornate chiuso in casa, buttiamolo fuori…. Se uno non ha voglia di far nulla si sceglierà sicuramente degli amici che hanno le stesse idee; se invece hai voglia di qualcosa di più ti metti in viaggio. In tutto questo, però, è importante cercare degli amici veri visto che in giro s’incontrano anche quelli fasulli… L’amico vero è quello che non vuole che tu sia uguale a lui, l’amico vero è contento che tu sia diverso da lui; quelli fasulli, invece, ti vogliono uguale. L’amico vero ti riprende quando sbagli e non ti asseconda invece su tutto, giusto per restarti “amico”.

Cosa dobbiamo fare invece noi adulti per far tornare i nostri giovani ad accogliere la vita?

Oggi non ci sono più adulti che stanno con i ragazzi, ormai sono due mondi separati. Ricordo ai miei tempi adulti che stavano con noi, lottavano con noi, sognavano insieme a noi… Dobbiamo smetterla, dunque, di fare i maestrini come si è fatto finora ignorando le loro domande, le loro paure, le loro fragilità. Se un bambino, ad esempio, ha paura non posso fargli un discorso teorico sulla paura, devo solo abbracciarlo…

È meglio avere gli occhi nel futuro o nel passato?

Questo è il vero problema. Chiara-mente la nostra generazione è piena di rancore e noi abbiamo spesso gli occhi nel passato. Le pieve romaniche, ad esempio, hanno l’abside rivolta ad Est, verso il sole che arriva. Bisogna quindi essere chiamati dal futuro, dal giorno nuovo che nasce e dalla vita che si rinnova quotidianamente. E non, invece, rimuginare sul passato che non serve più a nulla. Occorre vivere il presente con gli occhi verso il futuro. E naturalmente fidarsi di Dio.

Che ne pensi di papa Francesco?

È il numero uno, il campione del mondo… È troppo avanti.. Amo papa Francesco perché non ha una forma, è uno che riesce a dormire nonostante tutti i veleni; è uno che pur avendo in mente il mondo intero quando gli sei davanti ha cuore e occhi solo per te. Questa sua naturalezza, il non farsi avvelenare, il non irrigidirsi anche quando non ti ascoltano mentre tu continui a vedere il futuro e sogni un cambiamento, lo rendono veramente un grande papa. Credo che il problema del cristianesimo sia la poca femminilità…

In che senso?

Non intendo le donne in chiesa che, a mio avviso, ce ne sono anche troppe… Né mi riferisco alle donne prete. Nulla di tutto questo, parlo del femminile della Chiesa che appartiene anche agli uomini. E papa Francesco ha portato nella Chiesa alcune parole molto femminili, come ad esempio la misericordia, la compassione, la tenerezza, la carezza…

Qual è il tuo pensiero sulla questione degli immigrati?

La domanda che mi pongo è questa: perché siamo diventati così? Nietzsche diceva che ci saremmo avvelenati dal veleno dell’antico serpente. Ciò che di fatto sta avvenendo… Il mondo, infatti, è diventato più egoista, più prepotente, più cattivo e soprattutto è esplosa una rabbia incredibile contro gli immigrati. Però non è il giudizio dei capi a farmi paura, bensì quello della gente… Se come hanno detto alcuni esperti una larga percentuale di chi frequenta la chiesa vota per certi personaggi, vuol dire che abbiamo fallito, siamo stati sconfitti…. Cosa gli abbiamo insegnato se si comportano all’opposto di ciò che dice il Vangelo? Occorre, dunque, farli riflettere su qualcosa di positivo anziché puntare il dito sul male… Gesù in ogni cosa ci fa scoprire il bello. Per tornare alla tua domanda, mi sembra ovvio dire che ogni persona è un essere umano e come tale va trattata, mi sembra ovvio accoglierli, mi sembra ovvio almeno pensare a come aiutarli, mi sembra ovvio che è stupido alzare i muri…

Al mattino, prima di iniziare una nuova giornata, cosa chiede don Luigi Verdi al Signore?

Di rimanere piccolo e di avere gli occhi di Dio.

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