le buone e le cattive notizie

By Ciro Benedettini
Pubblicato il 30 Giugno 2019

Esistono le buone notizie? Sì, ma sono poche! Esistono invece tantissime  buone azioni. Ma raramente le buone azioni diventano buone notizie. E difatti ne trovi poche sui giornali.

Perché? Perché “notizia” non è tutto quello che accade ma solo quello che è ritenuto degno di essere pubblicato, fatto conoscere e suscitare interesse. Non solo: assurge alla dignità di notizia solo quel fatto/evento che è ritenuto “straordinario”. Per esempio: l’uomo che morde il cane non il cane che morde l’uomo. È proprio l’“ordinarietà” del bene che lo rende forse meno notiziabile, avvincente, come esprime bene la saggezza popolare con il proverbio: “Un solo albero che cade fa molto più rumore di un’intera foresta che cresce”. Insomma il bene, pur maggioritario, raramente fa notizia.

A parole tutti desiderano le buone notizie, nei fatti (quasi) tutti vanno a leggere o guardare quelle brutte: cronaca nera, ingiustizie, tradimenti, disgrazie. Infatti le cattive notizie sembrano avere più fascino di quelle buone. C’è in molti un’attrazione morbosa per quello che non va, che è riprovevole, gronda sangue, eccetera, forse per il gusto di giudicare, di sentirsi migliore degli altri.

Esprime bene questa contraddizione uno scandaloso vecchio slogan del giornalismo americano che recitava: “Una cattiva notizia è una buona notizia”. Buona? Sì, buona perché con una brutta notizia il giornalista va sul sicuro: cattura l’interesse della gente, si fa leggere, guardare, fa crescere le vendite, e quindi la pubblicità e il guadagno. La versione italiana del proverbio è altrettanto cinica: “Tre S (soldi, sangue e sesso) decretano il successo” di un giornale

Non vi è dubbio che il bene sia di gran lunga prevalente, altrimenti la società collasserebbe. E quindi meriterebbe una maggiore presenza nei media, anche perché esaltare il bello e il buono fa crescere la speranza. Tuttavia un giornale di sole buone notizie sarebbe una falsificazione della realtà. E nemmeno per gioco si può far finta che il male non esista. Anzi bisogna conoscere il male che c’è nella società per evitarlo, allertare, combatterlo, mostrarne i risultati devastanti. E, d’altra parte, spesso buono e cattivo, bello e brutto, sono così intrecciati che è difficile separarli.

Il guaio è che si fa l’abitudine alle cattive notizie e si genera una specie di assuefazione per cui, come nelle droghe, si cerca sempre una razione superiore di “cattiveria” o “bruttezza” che anche il giornalista è tentato di assecondare.

Il buon giornalismo non può arrendersi alla dittatura delle cattive notizie. Anche fra i giornalisti italiani sta maturando la consapevolezza che il predominio delle cattive notizie offra una visione distorta della società (va tutto male!), rende passivi, rassegnati al peggio. La semplice denuncia non migliora le cose, le aggrava. Per questo si sta facendo strada un “giornalismo costruttivo” che racconta la realtà con onestà, non tace il male, denuncia, ma ai problemi indica la soluzione dove c’è e l’aspetto positivo, e comunque stimola un dibattito, non intrappola nel negativo. Insomma, offre un’immagine della realtà più vera e completa.

L’insufficienza del vecchio giornalismo è dimostrata dal fatto che vi è un divario fra quello di cui parlano i giornali e la realtà, tra quello che mostrano i media e quello che la gente percepisce. Per esempio. È aumentata la percezione di insicurezza dei cittadini anche se è documentato che i crimini diminuiscono. Ma se i media ogni giorno bombardano con fatti delinquenziali è chiaro che il cittadino non si sente sicuro. Ugualmente: se degli emigrati si raccontano solo gli sbarchi, le violenze, le rapine, eccetera, che pur ci sono, si crea una mentalità di rigetto. Oltre che dei reati perché non parlare anche delle migliaia e migliaia di immigrati che hanno fondato quasi 600 mila imprese (una su 10 del totale) che producono un valore aggiunto di centinaia di miliardi che servono già ora a pagare le pensioni degli italiani?

La sfida per una informazione costruttiva riguarda tutti. Nell’era digitale siamo un po’ tutti comunicatori, soprattutto sui social.

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