IL RETAGGIO DI UNA SUBCULTURA PATRIARCALE
L’orrendo duplice femminicidio, madre e figlia, da parte del marito e padre kosovaro, avvenuto all’esterno di un discount a Pescina, nello scorso mese di ottobre, ancora una volta ha proiettato l’Abruzzo sulla scena della cronaca nera nazionale per crimini commessi contro le donne. Soprusi, abusi, violenza, sopraffazioni, vessazioni di ogni sorta contro le donne. Sembra, insomma, che si faccia molta fatica, nella nostra regione, a gettarci dietro le spalle il retaggio di una subcultura patriarcale che il processo di inculturazione ha trasformato, negli anni, in una sorta di tacita egemonia maschilista che permea ogni interstizio della società. Si dirà: ma il duplice femminicidio di Pescina non riguarda la nostra società, ma una cultura diversa dalla nostra dove il ruolo della donna è concepito in maniera completamente subalterno all’uomo. Perché da noi, forse, mancano esempi, anche eclatanti, di una medesima visione dell’organizzazione sociale? Perché da noi, in Abruzzo, non ci sono stati, non ci sono e non ci saranno ancora episodi di sopraffazione di genere? Vogliamo fare l’elenco dettagliato? Risparmiamocelo. Basta dire che stupri contro giovani donne, anche di gruppo, hanno avuto una risonanza nazionale (Pescara, L’Aquila); che le violenze dentro le mura domestiche contro mogli, figlie e sorelle riempiono fascicoli giudiziari; persecuzioni e molestie contro le ex (moglie, conviventi, compagne, fidanzate, ma anche donne inconsapevolmente oggetto di desiderio) danno molto lavoro alle forze dell’ordine che ricevono palate di denunce di questo tipo.
Insomma, lo stereotipo dell’abruzzese (maschio) forte e gentile è fortemente in discussione. Certo, le generalizzazioni sono sempre improprie e ingiuste, ma la favorevole reputazione non può continuare a reggere la scena, se dalla nostra regione continuano a provenire fatti di cronaca, finanche di sangue, contro le donne. Molte di loro non hanno il coraggio di denunciare le violenze che si consumano fra le mura domestiche: spesso, più delle conseguenze dirette a opera del marito o del compagno violenti, si teme la disapprovazione sociale. Proprio così. Denunciare il proprio marito per le violenze subite in casa, soprattutto nei paesi, non è sempre considerato un atto di dignità e coraggio: può essere, molto spesso, interpretato, nel migliore dei casi, come lesa maestà o, peggio, come capricci che derivano dai “grilli saltati nella testa”. Si preferisce soffrire in silenzio piuttosto che rovinare la reputazione di quel brav’uomo tanto apprezzato da amici e parenti. Poi, accade l’irreparabile e allora arriva l’immancabile intervista al vicino di casa: “un uomo tranquillo, una brava persona, nessuno di noi poteva aspettarselo”. L’irreparabile, però, qualche volta, accade anche quando chi è chiamato a valutare le minacce e le violenze denunciate sottovaluta la portata della loro pericolosità.
Ad agosto 2013 il governo italiano ha emanato con decreto legge (convertito lo scorso ottobre) norme penali che aggravano le ipotesi di atti persecutori od omicidio contro il coniuge o il convivente, tramite specifiche aggravanti dei reati. Una legge importante che, tuttavia, non determinerà un cambio culturale: esso potrà avvenire solo quando le condizioni strutturali daranno pari opportunità a entrambi i sessi. Non è una prospettiva che si presenterà dietro l’angolo.