I CIPRESSI DI BOLGHERI

By carlo napoli
Pubblicato il 1 Settembre 2023

Se vi trovate a una cena con qualche amico che declama un verso di Dante Alighieri o di d’Annunzio, potete essere certi che ha passato la sessantina. È un mio coetaneo, uno come me che ha messo da parte dagli anni di scuola un gruzzolo di poesie che rappresentano un piccolo tesoro personale di letteratura. Se uno dice “Piove dalle nuvole sparse…” , state certi che ci sarà un altro che completerà il verso “piove sulle tamerici salmastre ed arse”. E se qualcuno si esibirà con “I cipressi che a Bolgheri alti e schietti…”,un altro gli farà eco con “van da san Guido in duplice filar”.

Ci sono versi ormai consacrati da decenni o da secoli che porteremo con noi per tutta la vita, li abbiamo studiati per interi pomeriggi, li abbiamo ripetuti, forse li abbiamo anche odiati ma oggi li citiamo con una sorta di affettuosa nostalgia.

È vero: non ci piaceva questo esercizio mnemonico e ci chiedevamo perché questo tormento, poi la scuola ha voltato pagina e qualcuno ha detto che era tempo sprecato e non serviva a niente e che era meglio occuparsi di cose più utili.

Io non so chi avesse ragione, se era veramente tempo perso, ma oggi che si sono impressi dentro di noi centinaia di versi, sono contento di poter frugare fra Dante e Pascoli, fra Carducci e Foscolo, fra Manzoni e Leopardi senza consultare libri, col solo sussidio della memoria.

Mi dicono che ora imporre un brano o una poesia a memoria non è più di moda, che si può capire un poeta senza ripetere per ore i suoi versi, basta afferrarne il significato.

Ho cercato su internet i vari pareri su questo problema ma non sono riuscito a capire se veramente per le poesie a memoria si sia chiusa un’epoca. Ho letto le elucubrazioni di psicologi e di medici, di professori e di educatori ma è stato impossibile farmi un’opinione. C’è chi dice che l’essenziale è capire un poeta o uno scrittore, afferrarne lo stile e il significato, inquadrarlo in un orizzonte europeo ma abbandonare quello che ci ha angosciato negli anni scolastici, imparare a memoria. Qualcuno si è scagliato contro questa pratica ottocentesca che ha affaticato generazioni di alunni sostenendo che gli studenti non ne hanno tratto -intellettualmente – nessun vantaggio, anzi, è stata una pessima abitudine che ha avuto solo il pregio di appesantire lo studio senza trarne reali benefici culturali.

Non difendo questo “mandare a memoria” brani di poesie e non voglio nemmeno lodare il buon tempo antico quando bisognava imparare interi canti di Dante ma – sommessamente – mi sembra che qualcosa a difesa possa essere detta.

La prima osservazione è di ordine fisiologico e cerebrale e su questo nemmeno gli psicologi hanno obiettato: mandare a memoria stimola la memoria, in un periodo in cui Google ci ha reso culturalmente pigri, pronto a risolvere ogni problema e a offrire soluzioni in ogni campo. Mi vengono in mente le date della storia, i re e principi di case regnanti, le battaglie di Napoleone, personaggi che ormai in pochi secondi si trovano sul cellulare.

La seconda cosa è che noi, di altra generazione, avevamo una piccola, minuscola biblioteca in testa. Proprio imparando centinaia di versi potevamo sempre attingere ai nostri scaffali mentali, così che quelle poesie o brani “a memoria” diventavano patrimonio personale, quel verso aveva il nostro sigillo, e noi sempre pronti all’occorrenza per una citazione. Terzo motivo: una poesia a memoria èi come una canzone che la gente fischia per strada, quasi una consacrazione personale di un poeta che possiamo richiamare nei momenti tristi o lieti della nostra vita. Ma siccome credo nei corsi e ricorsi della storia, non mi meraviglierei se domani qualche psicologo -magari da un’illustre università americana – ci venisse a dire che imparare le poesie è un’ allenamento della memoria e bisogna tornar all’antico. Per conto mio conservo dentro di me centinaia di versi, il problema ormai non è di ricordarli ma di dimenticarli.

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