Due mesi di coronavirus.

Come sarà il futuro?
By Luciano Verdone
Pubblicato il 21 Aprile 2020

Sono due mesi che l’epidemia è entrata in Italia. Quel giorno, il 21 di febbraio, tutti abbiamo preso coscienza del fatto che ciò che sembrava tanto lontano (il virus cinese!), ormai, ci riguardava. Infatti, dopo quella data, abbiamo assistito, increduli, ad una successione ininterrotta di avvenimenti: il 4 aprile, quindici giorni dopo, il governo chiuse le scuole; domenica 8 marzo, la Lombardia venne isolata; ed il 9 marzo, il “restate-a-casa” fu esteso a tutto il paese.

Proprio il pomeriggio dell’8 marzo, eravamo a passeggio sul lungomare adriatico, com’è nostro costume domenicale. Tornando verso la città, entrammo in centro commerciale e ci accorgemmo che la gente, sospinta dai segnali di emergenza, che s’intensificavano sui telegiornali, dava l’assalto agli scaffali per le provviste. Già, in quel momento, aleggiava un oscuro presentimento. Ma, ignoravamo ancora del tutto ciò che sarebbe accaduto nei giorni successivi.

All’inizio, c’era ancora chi guardava, con un sorriso di compatimento, le persone zelanti che giravano con la mascherina. Ricordo che incontrando un amico per la strada, nella mia città d’Abruzzo, ci abbracciammo, quasi ad esorcizzare scherzosamente quanto stava accadendo lassù, in Lombardia. Poi, il sorriso si trasformò in amarezza. Qualche giorno dopo, sempre girando per la città, questa volta con tanto di maschera, presi atto che il mondo era cambiato. Spazi urbani deserti, spettrali, gente che si scansava sospettosa quando ti scorgeva in fondo alla principale via cittadina.

Oggi, a due mesi da quel 21 febbraio, abbiamo piena cognizione di quanto è successo. E’ accaduto qualcosa di inimmaginabile. Una crisi peggiore di quella del 1929. Migliaia di bare, lo strazio di tante famiglie, la fine di un’epoca, forse di un modo di vivere. Abbiamo sperimentato la sofferenza di milioni di persone recluse, il tracollo di innumerevoli imprese e di una miriade di negozi. E ci troviamo di fronte ad un futuro imprevedibile, a dir poco problematico.

Ma volendo passare dall’argomentazione sociale a quella esistenziale, come possiamo definire l’esperienza che abbiamo fatto in questi due mesi? Innanzitutto, abbiamo perso, in pochi giorni, il sentimento di onnipotenza che ha contraddistinto, per decenni, l’atteggiamento dell’uomo occidentale. E’ bastato un invisibile microbo ad umiliarci, a farci comprendere che la nostra civiltà è, in realtà, fragilissima. Che il terrore della morte può irrompere, all’improvviso, sullo scenario sociale. E che le acquisizioni scientifiche non sono sempre decisive per la sopravvivenza.

Ma, proprio questa tragedia planetaria ci ha fatto sperimentare che, di fronte al pericolo estremo, l’uomo rivela, in modo ambivalente, la sua vera identità. Sono, così, emersi biechi sentimenti di egoismo darwiniano, nascosti nelle profondità della psiche, inducendo alcuni a consigliare l’abbandono dei più fragili al loro destino. Almeno, fino a quando hanno scoperto che nessuno può considerarsi forte prima della prova. Penso a Boris Jhonson e Donald Trump. Così, come altri, invece, si sono rivelati campioni di dedizione fino al sacrificio della vita.

Ci sono anche cose minori che abbiamo compreso in queste settimane. Ad esempio, l’importanza del lavoro, degli impegni e delle relazioni sociali come mezzo per salvaguardare le motivazioni di vita e la stessa salute mentale. E che anche le persone apparentemente più forti e positive possono precipitare nella depressione.

Una cosa è certa. Quando riapriremo le porte di casa ed usciremo di nuovo, la mattina per recarci al lavoro, oppure la sera per passeggiare ed incontrare gli amici, gusteremo con rinnovato entusiasmo quanto eravamo abituati a fare, prima del 21 febbraio, forse senza troppa coscienza della nostra fortuna. Sempre che tutto questo ci sia ancora concesso come prima.

Come sarà l’avvenire? Mai, come ora, è grande l’incertezza. Continueranno a prevalere le forze regressive che regnavano prima del 21 febbraio? Come il sorgere di regimi semidittatoriali, in Turchia, in Ungheria, in Russia, in Polonia … I quali, sommandosi al dominio delle gigantesche forze economiche del neoliberismo, pesavano grandemente sulla povertà di tanti popoli. Oppure, prevarrà un umanesimo planetario, capace di attingere alle sorgenti dell’etica, quali la fraternità, la solidarietà, la responsabilità ecologica, la coscienza della comunanza dei destini umani?

Siamo in un mondo incerto e tutto può accadere, anche involuzioni catastrofiche, ma la possibilità non è mai certezza. La storia, tuttavia, insegna che, anche quando tutto sembra crollare, alla fine scaturisce sempre qualcosa di nuovo, d’impensato. Una cosa è certa. Nella vicenda umana, Eros, il principio di vita e di volontà costruttiva, e Thanatos, il principio di morte e di volontà distruttiva, continueranno ad affrontarsi, fino alla fine, senza mai prevalere del tutto. Ognuno di essi, a turno, prende il sopravvento. E qualsiasi civiltà sopravvive a condizione di rigenerarsi costantemente. Come afferma Edgar Morin, ogni progresso che non si rigeneri, degenera.

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