Nello scenario “post Covid” incertezze e difficoltà potranno produrre anche l’effetto di amplificare ulteriormente le aree “oscure” di elusione e di irregolarità in danno dei lavoratori, e in particolare delle categorie più fragili e vulnerabili
Stefania, mamma single di 46 anni, ha dovuto lasciare il suo posto da commessa in un panificio di Taranto sei anni fa, quando era incinta del primogenito. “Il titolare mi fece capire che era meglio se davo le dimissioni, una donna in gravidanza, costretta a stare in piedi troppe ore, era una responsabilità che non voleva prendersi”, ha raccontato. Quando il bimbo aveva un anno ci ha riprovato in un call center. I responsabili le dicono che se si fosse assentata per il figlio la prima volta avrebbero chiuso un occhio, la seconda no: “Alla fine mi hanno mandata via”. Il terzo tentativo è fare assistenza agli anziani: “Guadagnavo anche bene ma lasciavo mio figlio in un asilo privato perché mia madre non poteva accudirlo e mi sono resa conto che la metà dello stipendio andava lì e ho mollato”. Federica, 39 anni, torinese, ha due figli: la maggiore ha compiuto sei anni, il piccolo uno. Aveva un contratto a tempo indeterminato in una casa di cura per anziani nel torinese ma a fine marzo ha dovuto mollare perché la cura dei figli sommata al lavoro aggravato dalla pandemia non le ha dato tregua. E scelta. “Arrabbiata? No, sono rassegnata. Nel mio caso lavorare era diventato anti-economico e profondamente stressante – dice – né io né mio marito potevamo chiedere di lavorare in smart working e con le scuole chiuse avevo bisogno di qualcuno che si prendesse cura di loro”. Lavorare? “Spero di sì, in futuro, quando i figli saranno più grandi. Anche perché ho un’esperienza in questo settore da far valere”.
Stefania e Federica sono due delle migliaia di storie di neo mamme costrette a mollare il posto perché non ce la fanno a conciliare famiglia e lavoro. Necessità, stanchezza, mancanza di alternative. I motivi sono sempre questi. L’Italia non è un paese per mamme che lavorano.
I dati relativi al 2019 diffusi a fine giugno dall’Ispettorato nazionale del lavoro lo dimostrano e fotografano la frattura, che si allarga sempre di più, che separa uomini e donne al momento della nascita del primo figlio. L’anno scorso sono state più di 37mila le madri che hanno dato le dimissioni volontarie a fronte di quasi 14mila padri. L’Ispettorato del lavoro ha emesso 51.558 provvedimenti di convalida, il 4% in più rispetto al 2018. Le dimissioni volontarie sono oltre il 95%, quelle per giusta causa il 3%, le risoluzioni del rapporto di lavoro consensuali il 2%. Le dimissioni che riguardano le madri sono il 73%, in aumento rispetto all’anno scorso di oltre due mila casi, stabili invece quelle dei papà. In pratica, in sette casi su dieci a lasciare è la madre.
Nella Relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri emerge chiaramente come la motivazione principale sia la difficoltà di conciliare l’occupazione lavorativa con le esigenze di cura dei figli per una serie di motivi come l’assenza di parenti di supporto, gli elevati costi di asilo nido o baby sitter, il mancato accoglimento al nido. Le convalide di dimissioni nel 60% dei casi hanno interessato lavoratrici e lavoratori con un solo figlio o in attesa del primo. Contenute sono state le dimissioni degli extracomunitari (10%) e di quelli comunitari (6%). A preoccupare l’Ispettorato è adesso lo scenario “post Covid”, le cui incertezze e difficoltà potranno produrre anche l’effetto di amplificare ulteriormente le aree “oscure” di elusione e di irregolarità in danno dei lavoratori, e in particolare delle categorie più fragili e vulnerabili.
Si parla tanto, e da anni, di tutela della maternità ma nel concreto c’è poco. “Servono politiche di sostegno al ruolo genitoriale – dice la vicepresidente nazionale del Forum delle associazioni familiari Emma Ciccarelli, – una disciplina del lavoro che consenta una maggiore flessibilità nella gestione del tempo lavorativo. L’utilizzo dello strumento dello smart working in questi mesi, seppur in condizioni emergenziali, ci conferma che le donne hanno apprezzato questa modalità lavorativa, che può essere potenziata proprio nelle fasi più critiche del ciclo della vita familiare. Le donne non rinunciano al lavoro, se non ravvisano grosse criticità di conciliazione”.
Maria Grazia Colombo, l’altra vicepresidente nazionale del Forum, si sofferma su un altro aspetto emerso dai dati: “Il passaggio ad altre aziende, come viene evidenziato, è secondo me il dato più interessante, perché dice della ricerca continua che la donna fa per trovare un posto di lavoro ‘conciliante’, perciò non si tratta di una scelta professionale interessante, ma semmai di una scelta che parta prima di tutto dall’esigenza familiare. Il nostro, al momento, è un paese lavorativo che si pone contro la famiglia. Per contrastare questa drammatica tendenza servono più aziende family-friendly”. Quando ci sono, fanno notizia. Com’è accaduto qualche mese fa a Davide Zaccaria, 43 anni, amministratore unico di un’azienda nata nel 2010, la Cridav Italia, che di occupa di impianti di riscaldamento a Bientina, nella provincia di Pisa. Zaccaria è finito sui giornali perché ha assunto a tempo indeterminato la sua segretaria, Selene Vella, che era andata a comunicargli che era incinta e temeva per il suo contratto in scadenza: “Dopo qualche giorno – ha raccontato l’imprenditore – l’ho convocata io con una lettera di assunzione in mano. È molto valida e a me è stato insegnato che i collaboratori capaci non si devono lasciar scappare. Le ho detto di godersi la sua maternità e la sua famiglia e che noi la aspettiamo”.
Per la Cgil uno dei nodi cruciali è “il cronico disinvestimento nella scuola per l’infanzia (0-6 anni)” mentre la Cisl chiede l’approvazione del Family Act approvato dal governo a metà giugno e che prevede, tra le altre misure, un assegno mensile universale per tutti i figli fino all’età adulta, ma anche sconti per gli asili nella forma di detrazioni di spese sostenute per attività educative erogate da enti pubblici e privati. Il segretario confederale Giorgio Graziani e Liliana Ocmin, responsabile Coordinamento donne chiedono di “approntare strategie di rilancio del lavoro femminile, della maternità e soprattutto della condivisione della cura familiare ancora troppo sbilanciata sulle donne”.
Nei dati dell’Ispettorato del Lavoro, che parla di lavoratrici dipendenti, non rientrano tutte quelle altre donne che hanno lasciato il lavoro dopo la maternità: gli atipici, i precari, i lavoratori intermittenti che neanche possono licenziarsi perché magari hanno un impiego ma non hanno neanche un contratto. Per loro l’occupazione dopo una gravidanza finisce così, in silenzio, con una collaborazione non rinnovata, con un’entrata che piano piano sparisce, senza disoccupazione e senza tutele e, magari, con più difficoltà ad accedere ai bonus stanziati dal governo.
La pandemia, se da un lato ha convinto, sull’onda dell’emergenza, molte imprese a concedere più flessibilità con il lavoro agile, dall’altro rischia di abbattersi e aumentare le difficoltà delle madri lavoratrici. A molte donne che lavorano in banca hanno revocato lo smart working a metà giugno senza preavviso, impedendo loro di organizzarsi coi figli. Lavoratrici alle quali hanno imposto trasferte di lavoro, incuranti del supporto alla didattica a distanza della figlia. Ci sono donne alle quali è stato detto già che gli sarebbe stato revocato il part-time se avessero chiesto in autunno il congedo parentale per l’inserimento alla scuola materna dei figli. Ci sono quelle cui il part-time è stato imposto, nonostante poi venga chiesto loro di lavorare full-time.
Uno scenario che aumenta le discriminazioni tra uomini e donne in un paese in cui il tasso di occupazione femminile è del 63%, contro il 74% maschile, un divario che tende ad allargarsi man mano che aumenta il numero dei figli, e in cui ancora oggi gli stipendi delle donne, a parità di mansione, sono in media più bassi fino al 20% rispetto a quelli dei colleghi maschi. 2700 euro in meno in busta paga che stridono ancor di più se si pensa che le donne sono più qualificate: su 100 laureati in Italia, 56 sono donne, e la percentuale è in costante aumento anno dopo anno. Non è un paese per mamme che lavorano, e questo si ripercuote drammaticamente anche sulla natalità, sempre più bassa.