AL DI LÀ DAL MEDITERRANEO VENTI DI GUERRA CIVILE

La piccola guerra di Libia
By Angelo Paoluzi
Pubblicato il 2 Maggio 2019

La situazione sul territorio vede la presenza di due governi. Uno è quello di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale e guidato da Fayez al-Serraj, l’altro, che possiamo definire abusivo, del generale Haftar, controlla la metà orientale del paese

Si rischia una piccola Siria ai confini meridionali del nostro paese. Nonostante la scarsezza di mezzi bellici  continuano combattimenti e battaglie di propaganda. Come nei nomi affibbiati alle operazioni di guerra: “Diluvio di dignità” all’assalto del generale Khalifa Haftar contro il governo di Tripoli, “Vulcano di rabbia” alla controffensiva del governo legittimo. In Libia, divisa dall’Italia da qualche centinaio di chilometri del Mare Mediterraneo e da alcuni problemi di carattere internazionale (dai migranti alle forniture di petrolio), resta il problema di una potenziale guerra civile che graffia anche sugli interessi italiani. La situazione sul territorio vede la presenza di due governi. Uno è quello di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale e guidato da Fayez al-Sarraj, l’altro, che possiamo definire abusivo, del generale Haftar, controlla la metà orientale della Libia. Dai giorni che hanno seguito la “primavera araba” e la cacciata (e successiva uccisione) del dittatore Muhammar Gheddafi, queste due contrapposte entità reclamano una legittimazione politica a livello internazionale senza riuscire a trovare un accordo per condividere il potere. Così al-Sarraj, a Tripoli, si tiene ben stretto il riconoscimento dell’Onu, dell’Unione Europea e di altri paesi, mentre Haftar si fa forte dell’occupazione militare di metà del territorio, agevolata da accordi con potenti tribù locali, nonché di indubbi successi come la cacciata da Bengasi e da altre località degli islamisti dell’Isis (non completa, peraltro, se i terroristi riescono a compiere periodici attentati sul territorio). Il generale si fa forte inoltre del controllo esercitato sulla parte del paese più ricca di idrocarburi e dalla quale ricava i finanziamenti che gli permettono anche di mantenere il suo Esercito Nazionale Libico. Da anni la diplomazia internazionale tenta di far raggiungere un accordo ai due contendenti, che hanno rispettivi padrini peraltro poco interessati, a quanto sembra e sino al momento presente, a forzare la mano sul piano militare. Il segretario generale delle Nazioni Unite in persona, Antonio Guterres, ha cercato di convincere  il generale Haftar di recedere dall’iniziativa dell’assalto a Tripoli recandosi a Bengasi dopo che erano state mosse le truppe alla conquista della capitale. Ha ottenuto – con il cuore gonfio di dolore, ha ammesso – soltanto un rifiuto; cosa che ha portato all’annullamento di una conferenza sulla Libia prevista dal 14 al 16 aprile a Ghada-mes, e organizzata con grande fatica dall’inviato dell’Onu Ghassan Salamè. Può darsi che i pericoli della estemporanea guerra dichiarata da Haftar siano stati sopravvalutati; ma non bisogna dimenticare quali interessi, politici ed economici, si stiano muovendo attorno agli idrocarburi, se si continua a parlare di mercenari russi in appoggio al generale, del ritiro del contingente americano perché la guerra contro i fondamentalisti sarebbe stata vinta, di un sotterraneo contrasto tra Francia e Italia per quanto riguarda le concessioni petrolifere, di ambiguità di Parigi verso il legittimo governo di Sarraj, di un sostegno a Haftar da parte di Egitto, Arabia Saudita, Emirati e Russia. Pochi giorni fa il generale era stato ricevuto dal sovrano saudita Salman che, invece, aveva rifiutato qualche tempo prima di farsi fotografare con Sarraj. A margine delle vicende belliche, Sadiq al-Gariani, gran Mufti della Libia, invita a “resistere e combattere contro le forze di Haftar”. Si tratta comunque di appelli che contano in modo relativo, conoscendo l’estrema frammentazione anche all’interno delle stesse confessioni religiose.

Ma, come si diceva, un elemento in qualche modo rassicurante è dato dalla esiguità delle forze in campo che, fra le  une e le altre, superano di poco i cinquantamila militari. Haftar può contare su 13mila soldati regolari e 12mila miliziani (non sempre molto disciplinati). Alcune unità sono ben equipaggiate (specie quelle rifornite dagli Emirati, in violazione all’embargo), ma in genere il materiale risale ai tempi di Gheddafi. Il governo di Tripoli può contare sui 20mila uomini delle brigate di Misurata, con 800 mezzi corazzati, sui 2500 paracadutisti di Zintan e almeno su altre quattro milizie tribali. Anche qui il materiale risulta antico. Tutto questo spiega perché i combattimenti si svolgano principalmente a base di comunicati stampa, con esigue perdite umane.

Per quanto riguarda gli interessi italiani, gli osservatori sottolineano la mancanza di un precisa strategia, a parte quella economica che ruota attorno a petrolio e metano attraverso l’Eni, che controlla la situazione dall’esterno, a Malta. Attraverso  la società italiana, collegata con la Noc libica, passa il 70 per cento della produzione di idrocarburi locali, pari a 270-280 mila barili al giorno (il record era stato battuto nel 2017 con 384mila). Si tratta del 15% della produzione dell’intero gruppo, ciò che spiega il monitoraggio quotidiano della situazione dell’ente da parte delle nostre autorità politiche.

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