Con il governo Meloni l’Italia conta, a livello internazionale, di più o di meno? La risposta, se si pensa al prestigio che aveva Mario Draghi, non può che essere una sola. Contiamo di meno. E lo sanno anche i governanti di oggi. O almeno lo ammettono a mezza bocca. Però quello guidato dall’ex presidente della Banca centrale europea era un esecutivo tecnico. Draghi non l’aveva eletto nessuno, Giorgia Meloni sì. E la maggioranza di destra-centro – essendo una novità assoluta ma frutto della scelta democratica degli italiani – sconta inevitabilmente qualche pregiudizio e non poca impreparazione. Ma può ricavarsi, con intelligenza tattica, un ruolo inaspettato. Meloni è consapevole di dover scalare molti gradini impervi dopo aver rotto – con merito che tutti le riconoscono – il soffitto di cristallo della prima donna presidente del Consiglio, l’unica al recente vertice dei Paesi del G7 a Hiroshima, in Giappone. Da qui un atlantismo, senza se e senza ma, addirittura più pronunciato di quanto sia necessario, vista la tradizionale collocazione internazionale del nostro Paese. Quasi che il ribadire, con un sovrappiù di enfasi, di essere dalla parte dell’Ucraina, di aiutarla in ogni modo, nella piena fedeltà alla Nato, possa in ogni caso servire per avere maggiore ascolto su altri tavoli. Quelli europei, per esempio, dove la nostra posizione è indebolita non soltanto dalla natura politica dell’esecutivo, ma soprattutto dai troppi fronti aperti. Per esempio quello del Meccanismo europeo di stabilità, il famigerato Mes, che l’Italia è l’unica a non avere ancora ratificato. La speranza di poter scambiare un sofferto sì al Mes con altri vantaggi, per esempio nelle nuove regole di bilancio europee, si è dimostrata un’illusione. E lo stesso si può dire per la trattativa, complessa ma strategica, sulla transizione ecologica, ovvero il passaggio alle fonti rinnovabili, i biocarburanti e l’introduzione dei motori elettrici. Siamo contraenti deboli ma forse lo saremmo stati anche con altri esecutivi di diverso colore e di maggiore ispirazione europeista. Giorgia Meloni ha però un vantaggio potenziale che le deriva di essere alla guida dei conservatori europei. Le elezioni europee del prossimo anno potrebbero vedere uno spostamento a destra dell’asse delle alleanze comunitarie. Con lei interlocutore più credibile e persino temuto. Ma è un vantaggio o una trappola? Il futuro del ruolo internazionale dell’Italia si gioca su questa sottile distinzione.
Il successo europeo dei conservatori di Meloni potrebbe non essere il successo del Paese, anzi della nazione, come dice lei, se questo volesse dire solo un più stretto rapporto con i sovranisti di Ungheria e Polonia. Alleati da palcoscenico nazionalista, ma nemici acerrimi dell’Italia su tutti i grandi dossier che contano. A cominciare dai migranti per finire alle regole di bilancio. Fuoco amico. Al confronto del quale, lo stizzoso e arrogante atteggiamento della Francia di Macron, appare poca cosa, al limite dell’infantilismo politico. Noi abbiamo bisogno di essere alleati autorevoli e credibili di Parigi e Berlino. Non i capifila di un nazionalismo europeo tanto roboante quanto poco concreto.