STIPENDI BASSI, SPESE ALTE…

Un quadro non certo incoraggiante
By Antonio Andreucci
Pubblicato il 3 Ottobre 2022

NEGLI ULTIMI TRENT’ANNI L’ITALIA È L’UNICO PAESE IN CUI I SALARI ANNUALI MEDI SONO DIMINUITI DI QUASI IL 3 PER CENTO. TRA I PIÙ COLPITI DAGLI SQUILIBRI DEL MERCATO DEL LAVORO ITALIANO CI SONO SICURAMENTE I GIOVANI

Altro che uno-due gradi in meno di riscaldamento per far fronte alla crisi energetica; qui si annunciano un autunno e le stagioni a venire calde che più calde non si può. La congiuntura negativa, come la chiamano gli esperti, ci costringerà a stringere la cinghia per una cura dimagrante da uno-due buchi in meno nella cinghia dei pantaloni. Il quadro non certo incoraggiante si evince dal Bollettino economico numero 3 del 2022 della Banca d’Italia, nel quale si evidenzia come gli stipendi degli italiani siano in realtà diminuiti moltissimo in fatto di potere di acquisto. Nel primo trimestre le retribuzioni contrattuali nell’area dell’euro sono aumentate del 2,8 per cento su base annua mentre quelle italiane non raggiungono neppure l’1%. Tenendo conto che i prezzi aumentano in media dell’8% significa che i salari sono più bassi del 7% rispetto all’anno scorso. Diversa la situazione in Paesi europei simili al nostro: in Francia gli incrementi delle buste paga sono stati di oltre il 2%, in Germania del 2 (ma si sale a + 4,3 considerando le una tantum), in Spagna del 2,4. La debolezza degli incrementi salariali si accompagna ad un andamento del margine operativo lordo (la differenza tra i ricavi e costi) medio delle imprese italiane in progressiva discesa da fine 2020, a testimoniare come vi siano difficoltà nel miglioramento della produttività.

Questi i dati tecnici. Detto in parole povere, secondo i calcoli dei sindacati, finora l’inflazione è costata a ogni famiglia l’equivalente di uno stipendio di 1.200 euro. Ovviamente, i più colpiti sono i redditi bassi in quanto l’inflazione non è neutra, nel senso che il tasso per le famiglie più ricche è inferiore a quello delle disagiate. Mentre i salari restano fermi – vedremo che in Italia non crescono da 30 anni – il caro-prezzi ha raggiunto livelli che non si vedevano dal 1986, quando ancora esisteva la scala mobile. Tutto questo mentre il Monitor Lavoro elaborato dalla Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro segnala per il secondo semestre una preoccupante tendenza all’aumento del lavoro povero, soprattutto nel Centro e Sud Italia, con aumento di sottoccupazione, precarietà e retribuzioni basse

Segnali che l’inflazione sarebbe aumentata vi erano stati già nell’autunno del 2021 con un primo aumento dei prezzi al consumo. Non è successo solo a noi, ma anche negli altri Paesi europei. Tutto ciò non è avvenuto per caso. Un po’ è dipeso dalla riduzione dell’offerta in alcuni settori produttivi a causa della pandemia, un po’ dall’aumento del costo delle materie prime. L’invasione dell’Ucraina ha peggiorato ulteriormente il quadro, con l’aumento del prezzo del gas naturale, del petrolio, delle materie prime agricole. Così, dopo tanti anni in cui eravamo abituati a non sperimentare l’inflazione, ci ritroviamo con i prezzi che aumentano. Per questo dobbiamo fare di tutto per contenere l’inflazione. Non è affatto semplice perché inflazione può portare altra inflazione. Bisogna soppesare adeguatamente le misure sia da parte delle banche centrali, sia da parte del governo. Le banche centrali perché un intervento drastico di aumento dei tassi di interesse potrebbe riportarci in recessione (come avvenne nel 2008); il governo perché c’è la necessità di adottare politiche di equità che mettano al centro la difesa delle fasce più vulnerabili della popolazione, che subiscono la erosione dei salari, senza che questo inneschi la crescita dell’inflazione (che, come abbiamo visto) penalizzerebbe di nuovo sempre i segmenti più svantaggiati.

Se guardiamo gli stipendi, i dati dell’Ocse sono sconcertanti: negli ultimi trent’anni l’Italia è l’unico Paese in cui i salari annuali medi sono diminuiti di quasi il 3 per cento. Senza andare a confrontare la crescita di alcune nazioni dell’ex blocco sovietico, come quelle baltiche – dove le retribuzioni sono cresciute di almeno il doppio (Lituania +276%, Estonia +237%, Lettonia +200%) -, è il paragone con i Paesi simili al nostro che segna una distanza enorme. In Germania i salari sono cresciuti del 33%, in Francia del 31%, in Belgio e in Austria del 25%, in Portogallo del 14 e in Spagna del 6%. I Paesi scandinavi registrano il +63% della Svezia, il +39 della Danimarca e il +32% della Finlandia. Insomma, un altro mondo. Attenzione, però: non è che i lavoratori baltici navighino nell’oro ed abbiano stipendi principeschi. Si tenga conto del periodo lunghissimo: in 30 anni, questi aumenti salariali del 200-300 per cento indicano che, semplicemente, hanno mantenuto il potere d’acquisto, compensando più o meno l’inflazione avvenuta nel trentennio, che in quei paesi era sicuramente più del 2% annuo prescritto dalle norme europee e dalla Bce. Tutti gli altri salariati europei – principalmente quelli che hanno adottato l’euro – hanno perso enormemente potere d’acquisto. Per i lavoratori francesi, per esempio, un aumento del 31 per cento in 30 anni significa un aumento salariale reale dell’1% annuo, divorato dall’inflazione “ufficiale” del 2% annuo. Però, è facile comprendere come se non è tutto oro quello che luccica per la Francia, figuriamoci per l’Italia che ha registrato un -2,9!

Tra i più colpiti dagli squilibri del mercato del lavoro italiano ci sono sicuramente i giovani. Eurostat ha calcolato gli stipendi europei della fascia 18-24 anni: la media annuale Ue è di 16.825 euro e il nostro paese si attesta sotto questa soglia con 15.858 euro. Peggio fa la Spagna con 14.085 euro (ma il costo della vita è più basso), mentre i livelli di Francia (19.482), Paesi Bassi (23.778), Germania (23.858) e Belgio (25.617) sono decisamente superiori. Guardando le paghe orarie complessive di tutti i lavoratori, gli italiani guadagnano in media 8 euro lordi l’ora in meno rispetto a tedeschi e olandesi. E non è il costo del lavoro a penalizzare il nostro sistema perché il costo medio orario del lavoro in Italia è di 29,3 euro, tenendo conto di salari, contributi e altre tasse. In Spagna è più basso (22,9 euro), ma in Germania è di 37,2 euro, in Francia di 37,9, in Olanda di 38,3, in Belgio 41,6 euro. Insomma, arranchiamo di brutto. Se può consolarci, negli anni 2008 e 2011 affrontammo una situazione analoga e ne uscimmo fuori. Forse stavolta ci vorrà più tempo, ma occorre essere ottimisti.

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