QUELLA RICCHEZZA CHE RACCONTA MEZZO SECOLO DI STORIA

Il tesoro custodito nel caveau della Banca d’Italia
By Antonio Andreucci
Pubblicato il 1 Febbraio 2022

Oltre 6 mila brillanti e 2 mila perle di diverse misure montati su collier, orecchini, diademi e spille varie. Se messi in vendita potrebbero fruttare almeno 300 milioni di euro. Emanuele Filiberto li rivendica a nome dei Savoia, ma lo Stato…

Un tesoro immenso giace impolverato da decenni nelle camere di sicurezza della Banca d’Italia. Per la gran parte non è neppure catalogato ed è ammassato in sacchi sigillati. Al di là del valore e della bellezza degli oggetti, si tratta di una testimonianza certamente interessante della nostra storia. Quegli oggetti non raccontano solo il crepuscolo della monarchia, ma anche il tentativo di fuga di Benito Mussolini e di alcuni gerarchi e la tragedia del terremoto del 1908 che rase al suolo Messina e Reggio Calabria, causando oltre 90 mila vittime.

Il pezzo forte è senza dubbio il tesoro della Corona, la cui titolarità viene addirittura reclamata dagli eredi di Casa Savoia. Attualmente i gioielli di uso quotidiano sono custoditi in un cofanetto in pelle nera, a tre ripiani, foderato con velluto azzurro, protetto da 11 sigilli (5 del ministero della Real Casa e 6 della Banca d’Italia). All’interno vi sono 6.732 brillanti e 2 mila perle di diverse misure montati su collier, orecchini, diademi e spille varie. Se messi in vendita – secondo alcuni esperti che si sono rifatti anche a valutazioni della rinomata casa d’aste londinese Sotheby’s – potrebbero fruttare almeno 300 milioni di euro. Quel cofanetto giace nel sotterraneo dal 5 giugno del 1946; da allora è stato aperto solo una volta, nel 1976, su disposizione della Procura di Roma che aveva avviato un’inchiesta dopo che il settimanale di destra, Il Borghese, aveva ipotizzato la scomparsa di alcuni gioielli. Accertato che si trattava di una bufala e che il tesoro era intatto, furono riposizionati i sigilli e sulla vicenda scese il sipario.

Ma a chi appartiene quel tesoro? Emanuele Filiberto, noto per le sue apparizioni televisive come showman, a nome dei Savoia ne rivendica la proprietà perché sono gioielli privati che non hanno nulla a che vedere con il governo italiano e che una volta restituiti potranno essere esposti. Le cose, però, stanno diversamente. Il 6 settembre del 43, due giorni prima dell’armistizio, la Corte era indaffarata a preparare i bagagli per fuggire gambe in spalla e lasciare al più presto l’Italia (come fece poi furtivamente alle 4 di mattina del 9). Vittorio Emanuele III convocò il conte Vitale Cao di San Marco e gli chiese di prelevare i gioielli e nasconderli in un posto sicuro. Il conte, aiutato da un operaio fedelissimo alla monarchia, li murò in un cunicolo che collegava palazzo Barberi-ni al Quirinale (allora sede del Re). Finita la guerra, tornò in Italia il figlio di Vittorio Emanuele III, Umberto, come Luogotenente del Regno, il quale si riprese il tesoro. Però, dopo il referendum del 2 giugno che sancì la scelta repubblicana, il presidente del Consiglio, Alcide de Gasperi, chiese a Umberto II di trasferire alla Banca d’Italia il Tesoro della Corona conservata nella cassaforte numero 3 del Quirinale. La richiesta si basava sul presupposto che i beni che componevano la dotazione della Corona erano annoverati dalla legislazione del Regno nella categoria dei “beni non disponibili dello Stato”, appartenenti quindi allo Stato e assegnati al Re per l’adempimento delle sue funzioni. Posti cioè, al servizio dell’ufficio del sovrano, non della sua persona (una distinzione prevista, oltretutto, dallo Statuto Albertino e da due successive norme, una del 1850 e l’altra del 1905). Quindi, era diventato proprietà della Repubblica. Il ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, fu incaricato di consegnare il “cofanetto” al governatore della Banca centrale, Luigi Einaudi (che nel 1948 sarebbe diventato presidente della Repubblica). La consegna è certificata da un documento redatto il 5 giugno, in carta da bollo da 12 lire: “L’anno del 1946, il 5 giugno, alle ore 17 Falcone Lucifero dichiara di aver ricevuto incarico da sua maestà Re Umberto II di affidare in custodia alla cassa centrale della Banca d’Italia per essere tenuti a disposizione di chi di diritto gli oggetti preziosi che rappresentano le cosiddette “gioie” di dotazione della Corona del Regno… che qui di seguito si trascrivono”. Secondo i Savoia, la dicitura “tenuti a disposizione di chi di diritto” indica che il proprietario del tesoro è la (ex) Casa reale, pretesa che contrasta con la richiesta perentoria fatta da De Gasperi ed eseguita da Umberto II. Comunque, a tagliare la testa al toro ci pensa la nostra Costituzione la cui tredicesima disposizione finale e transitoria specifica: “I beni, esistenti nel territorio nazionale degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli”. Pertanto, la proprietà è dello Stato.

Non sono state invece avanzate pretese sul cosiddetto “tesoro di Dongo” sequestrato a Benito Mussolini, alla sua amante ufficiale, Claretta Petacci, e ad alcuni gerarchi fascisti arrestati il 27 aprile 1945 dai partigiani della brigata Garibaldi mentre tentavano di fuggire in Svizzera. Bauli strapieni, alcuni dei quali contenevano oro, gioielli, orologi preziosi e molto denaro in valuta italiana e straniera. Roba diventata proprietà della Repubblica (ma come avevano fatto ad accumulare tutto quel “bendidio”, dato che si definivano incorruttibili servitori dello Stato?). A questi vanno aggiunti preziosi che la moglie di Mussolini, Rachele, aveva con sé a Como, dove soggiornava in Villa Mantero in attesa di fuggire assieme ai figli verso la Svizzera per ricongiungersi al Duce (in compagnia di Claretta). Si tratta di decorazioni in oro, platino e brillanti del Terzo Reich, monili con pietre preziose, una collana con cristalli sfaccettati e altro ancora. Assieme a queste ricchezze (chissà come accumulate) ci sono anche parte dell’oro che gli italiani furono costretti a “donare” alla Patria per finanziare la campagna d’Etiopia; preziosi che gli ebrei italiani di Salonicco cercarono di salvare dopo l’invasione nazista della Grecia e quelli appartenuti ai prigionieri di guerra. I sotterranei contengono pure gli oggetti rinvenuti tra le macerie del terremoto del 1908. Dopo il sisma venne costituito il Comitato centrale per i recuperi, incaricato di restituire ai legittimi proprietari o agli eredi gli oggetti di valore trovati fra le macerie.

Un patrimonio sterminato: nessuno sa con esattezza cosa contengano i 419 plichi e le oltre duemila bisacce da cui è composto, perché un inventario completo non è mai stato fatto. Una ventina di anni fa il ministero dell’Economia istituì un gruppo di lavoro con Bankitalia e i Beni culturali per realizzare una ricognizione: esporre quel che lo meritava e vendere tramite il demanio tutto il resto. In un anno furono catalogati i 59 plichi di maggior rilevanza, meno del 15 per cento. Poi però il programma naufragò. Tutte pagine del passato che avrebbero tanto da raccontare e potrebbero avere anche un ritorno economico, magari allestendo un grande museo. L’esempio lo fornisce la Torre di Londra, dove sono custoditi i gioielli della Corona anglosassone. Ogni anno vi si recano circa tre milioni di visitatori (che pagano il biglietto per ammirarli). Insomma, se non si vogliono vendere, e ricavare diverse centinaia di milioni di euro, tanto vale esporli e portare alla fruizione di tutti un segno della storia italiana.

Comments are closed.