PASTORI O MERCENARI? (GV 10,1-18)

Vi pastori secondo il mio cuore
By giuseppe de virgilio
Pubblicato il 1 Novembre 2022

Le guide che Dio suscita lungo la storia di Israele sono spesso raffigurate con immagini pastorali – Nello sviluppo della narrazione giovannea spicca la similitudine del pastore e del gregge (Gv 10,1-18). Nel rivelarsi come guida dei credenti Gesù applica a sé la figura del “pastore buono [bello]” nota nella tradizione biblica, perché descrive in forma chiara e profonda la relazione tra Dio e Israele. In diversi salmi si fa memoria di Yhwh che nell’esodo ha condotto il suo popolo verso la terra promessa (Sal 78,25-26; 95,7). Le guide che Dio suscita lungo la storia di Israele (giudici, re, figure-leaders, eccetera) sono spesso raffigurate con immagini pastorali. La relazione pastore-gregge è ripresa come un motivo teologico al tempo dell’esilio babilonese (Is 40,11; 49,10), rievocando la speranza messianica che le pecore disperse saranno radunate da Dio (Is 56,84; Zc 10,8). Spicca la denuncia profetica contro i “falsi” pastori di Israele. Essi hanno abbandonato la via di Yhwh e non si sono presi cura del gregge loro affidato (Ger 2,8; 10,21; 23,1-2; 25,34-37). La metafora pastorale è impiegata con particolare intensità dal profeta Ezechiele che condanna i capi del popolo, dichiarando che Dio sarà l’unico pastore del suo gregge (Ez 34,20-24; Zc 11,15-17). Per questo negli ultimi decenni prima della venuta di Gesù, aumenta l’attesa del “pastore” che guiderà il popolo eletto alla salvezza definitiva.

Pecore e lupi

L’impiego della relazione pastore-gregge è attestato anche nel Nuovo Testamento. Oltre alla menzione dei pastori nel racconto della nascita di Gesù (Lc 2,8-20), gli evangelisti mostrano di conoscere bene l’ambiente e le abitudini degli allevatori del tempo. È nota la parabola del “buon pastore” (Lc 15,4-6; Mt 18,12-13), ma va anche rilevata la presentazione di Gesù come il “pastore” (Mc 5,2; Mt 2,6) inviato dal Padre per radunare le pecore perdute della casa d’Israele (Mc 6,34; Lc 19.10; Mt 15,24). L’immagine pastorale è applicata alla missione dei discepoli. Essi sono mandati da Cristo come pecore in mezzo ai lupi (Mt 10,16). Nell’imminenza della sua passione Gesù predice ai suoi che il pastore sarà ucciso e il gregge dei discepoli si disperderà (Mt 26,31; cf. Ger 23,1-6). Allo stesso tempo Dio farà risorgere il pastore e alla fine egli giudicherà le sue pecore (1Pt 5,4) separandole dai capri (Mt 25,31-32). La similitudine pastorale si caratterizza per il suo dinamismo pedagogico che richiama il cammino di maturazione dei credenti. “Essere pastore”, secondo la tradizione ebraico-cristiana, significa esercitare la responsabilità del gregge, amarlo, condurlo, proteggerlo e guidarlo secondo il progetto di Dio.

La cura del gregge

Fermiamo la nostra attenzione sulla pagina giovannea (Gv 10,1-18), che si articola di tre parti. La prima (Gv 10,1-16) descrive il recinto delle pecore con la porta e indica la relazione di fiducia che le pecore riservano al pastore che le chiama per nome. La seconda (Gv 10,7-10) applica l’immagine della porta alla persona di Cristo, la cui bontà si contrappone alla rapacità dei ladri e dei briganti. La terza parte (Gv 10,11-18) identifica Gesù come il “buon pastore” che dà la vita per il suo gregge ed è in comunione con il Padre. Della prima parte colpisce la relazione tra pastore e gregge. Il prendersi cura del gregge è simboleggiato dalla conoscenza e dalla capacità di ascolto e di dialogo. Un aspetto importante riguarda l’invito al discernimento che i credenti devono saper fare tra pastore e brigante. Il pastore apre la porta perché rispetta e riconosce il diritto delle pecore. Il brigante non entra per la porta, perché è un estraneo. La fiducia delle pecore si realizza attraverso un processo di conoscenza e di familiarità. Le pecore “conoscono” la voce del pastore e si lasciano condurre fuori, in una strada sicura e senza rischi (cf. Sal 23).

La vita in abbondanza

La seconda parte culmina con un’affermazione fondamentale: Gesù è la “porta” delle pecore ed è venuto nel mondo per donare la sua vita (Gv 10,7-10). Il valore simbolico di tale affermazione implica una rilettura sapienziale della storia di Israele: quanti hanno cercato di esercitare il potere sul gregge con violenza, non sono stati veri pastori ma persecutori e tiranni. Solo attraverso Cristo si trova la salvezza e la liberazione. Ciascun credente deve passare con fiducia “attraverso Gesù”, sperimentare la comunione con lui e sentire la sua tenerezza e protezione. La missione del Figlio consiste nel donare la propria vita per la salvezza dell’umanità. Non pochi pastori hanno difeso il gregge contro i briganti violenti e hanno donato la vita. Sono questi i martiri di ogni tempo, che incarnano la dimensione pastorale dell’amore di Dio. Il modello di ogni pastore è Gesù che offre se stesso perché tutti abbiano la vita in abbondanza.

Chi ama, vive la lotta

Nell’ultima parte del suo discorso (Gv 10,1-18) il Signore rivela la comunione con Dio Padre, a cui le pecore appartengono. Si contrappongono due figure e due stili di vita: il “buon/bel pastore” e il mercenario. Alla prima figura si collega il dinamismo della comunione e della fecondità. Alla seconda figura si applica la negatività dell’egoismo e del potere violento che conduce alla morte. Mentre il buon pastore “conosce le pecore”, il mercenario non ha interesse a difenderle dal pericolo del lupo. Solo chi conosce in profondità, sa prendersi cura dei fratelli e venire loro incontro. Gesù lascia intendere che l’esercizio pastorale non è solo riservato al gregge presente, ma anche ad altre pecore che “non sono di questo ovile” (v. 16). Anch’esse saranno oggetto di amore di predilezione. Chi ama vive il coraggio di lottare per la vita. Poiché la vita è dono di Dio, solo chi interpreta la vita nell’ottica del servizio può comprendere l’importanza di questo dono a favore degli altri. Il discorso termina con il riferimento al Padre, fonte della vita. Nella piena obbedienza alla sua volontà, Cristo realizza il progetto del Padre, consegnandosi per la salvezza del gregge. L’espressione finale riguardante la libertà del dono di sé (v. 18), allude alla sofferenza della morte violenta. Dio non abbandona il suo Figlio nelle mani dei suoi persecutori, ma lo accompagna con infinito amore, perché si compia la salvezza e la vita abbia la sua definitiva vittoria sulla morte!

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