NUOVI ORIZZONTI PER GLI ATENEI

Modalità a distanza e app per ripartire
By Antonio Andreucci
Pubblicato il 11 Settembre 2020

Prima del Coronavirus l’università italiana sembrava aver iniziato a risollevarsi e a colmare perdite ingenti in termini di iscritti, laureati e tassi di occupazione. Ora cosa accadrà?

Modalità a distanza» e “app per videochiamate di gruppo” saranno gli aspetti che caratterizzeranno in futuro le lezioni, soprattutto a livello universitario. Perché sono anche queste le eredità della Covid-19; e per poter continuare ad andare avanti, ci si è attrezzati nel periodo di maggior crisi, scoprendo un sistema che può funzionare anche al di fuori dell’emergenza. Per esempio: lezioni ed esami universitari da svolgere in videoconferenza per ridurre i costi di una frequenza fuori sede. Un aspetto economico che non è secondario e che, come vedremo, ha ridotto di molto le iscrizioni. Gli atenei hanno già provveduto. Ecco alcuni passi di una direttiva emanata dal rettore di una delle maggiori università italiane: “Le prove finali per il conseguimento del titolo di studio (laurea, laurea magistrale, dottorato di ricerca e master) si svolgeranno esclusivamente con modalità a distanza”. Il bello è che in questo caso “l’incarico di presidente della Commissione sarà conferito al docente in grado di assicurare il più alto livello di qualità della connessione di rete e di gestire in modo adeguato le operazioni e le eventuali difficoltà organizzative che dovessero presentarsi”. Perciò, la “qualità connettiva” diventa un “grado” accademico. Allora, ecco il mazzo di quelle che sono ritenute le maggiori applicazioni per videoconferenze, dal quale scegliere l’app vincente (ottime anche per i collegamenti con parenti o amici): Skype, Zoom, WhatsApp, Facebook, Rooms, Google Meet, Instagram, Fcetime, Duo, Houseparty, Hangouts, Teams, Messenger.

Quella che sta per cominciare sarà, ovviamente, una stagione particolare, come rileva Almalaurea, il Consorzio interuniversitario del quale fanno parte 76 atenei e circa il 90 per cento dei laureati usciti ogni anno, dal sistema universitario italiano. A fronte dei dati positivi nel 2019 per numero di iscrizioni e tasso di occupazione, permane un quadro a macchia di leopardo, dove a restare indietro sono soprattutto il Sud e le donne. La pandemia rischia di compromettere i risultati raggiunti, per questo occorrono interventi che risolvano fragilità strutturali. Prima del Coronavirus l’università italiana sembrava aver iniziato a risollevarsi e a colmare perdite ingenti in termini di iscritti, laureati e tassi di occupazione. L’istituzione ha retto il colpo, meglio rispetto alla scuola, la vittima più illustre di questa pandemia, ma adesso la crisi rischia di avere ripercussioni importanti sul nostro sistema universitario. Se l’Italia partiva da una condizione di forte ritardo, con 70 mila matricole perse soltanto al Sud nel 2015, in questi anni è riuscita a recuperarne quasi la metà. Il 2019, in particolare, mostra alcuni dati incoraggianti: 166 mila laureati di triennale, 87 mila magistrali biennali e 36 mila magistrali a ciclo unico. Un bilancio stabile, che registra anche un’età media leggermente più bassa rispetto al passato: meno di 25 anni di età per i laureati triennali e circa 27 per i magistrali. L’Italia rimane comunque penultima in Europa per numero di laureati (solo il 40 per cento dei diplomati si iscrive all’università), ma negli ultimi anni si è iniziato a registrare un’inversione di tendenza. Comunque, un’interpretazione dei dati è che diminuiscono sensibilmente i fuori corso cronici e che sono finiti i tempi in cui “universitario” era uno status per coprire l’incapacità a non voler fare altro e a sfrusciare i soldi dei genitori.

La ricerca indica che a un anno dal conseguimento del titolo, il 74,1% tra i laureati di primo livello e il 71,7% tra quelli di secondo livello ha trovato un’occupazione: statistiche in aumento di 8,4 punti per i primi e di 6,5 punti per i secondi rispetto alle rilevazioni precedenti. Segnali positivi che però – precisa Almalaurea – non sono ancora in grado di colmare la significativa contrazione del tasso di occupazione osservabile tra il 2008 e il 2014 e che devono comunque essere contestualizzati anche rispetto all’attualità. La pandemia rappresenta infatti una prova non indifferente per i giovani che stanno per affacciarsi al mondo del lavoro. Di gran lunga più avvantaggiati degli altri sono i laureati in ingegneria, nelle professioni sanitarie e in architettura (a cinque anni dal titolo, più del 90% dei laureati magistrali in questi ambiti è occupato). Nettamente più indietro, anche a distanza di anni dalla laurea, sono invece i dottori dei gruppi insegnamento, letterario, psicologico e geo-biologico, per i quali il tasso di occupazione è inferiore all’83%. In particolare, a raggiungere le performance occupazionali migliori sono i laureati del gruppo medico (93,8%), mentre a perdere più degli altri sono quelli delle lauree giuridiche (il 78,2% di loro è occupato).

Insomma, la laurea serve ancora, ma molto dipende dalla facoltà. In realtà, anche aver preso quel pezzo di carta non aiuta in modo determinante. Dal rapporto emerge come coloro che provengono da famiglie più svantaggiate, non solo in termini economici ma anche per livello di istruzione dei genitori, tendono a studiare per un numero inferiore di anni e anche quando si iscrivono, scelgono corsi di laurea più brevi. A determinare il proseguimento degli studi fra il primo e il secondo livello, poi, è soprattutto la presenza di almeno un genitore laureato in famiglia (il 73,1% di chi ne ha uno prosegue, contrariamente al 54,3% di chi non ne ha). Rimane inoltre un fortissimo gap di genere (a parità di tutti gli altri elementi, gli uomini hanno il 19,2% di probabilità in più di essere occupati) e territoriale: i residenti al Nord hanno il 40% in più di probabilità di trovare lavoro rispetto a coloro che vivono al Sud, e chi studia nelle università del Nord addirittura il 63,7% di probabilità in più di essere occupato rispetto a quanti stanno nel Mezzogiorno. Tant’è che il 44% di questi, a cinque anni dal titolo, lavora in una regione diversa dalla propria, o addirittura all’estero.

Il governo ha stanziato 1,4 miliardi per l’università, risorse che andranno in gran parte a coprire il diritto allo studio, in particolare per l’incremento della no tax area e la riduzione delle tasse universitarie, e per l’aumento del fondo per le borse di studio regionali di 40 milioni, per garantire le borse agli idonei meritevoli. Ci sono anche risorse destinate a colmare il digital divide, ma ancora non è abbastanza: “Tutto il sistema di intervento 2020-21 dovrebbe diventare permanente, con investimenti ulteriori soprattutto sulla residenzialità universitaria”, ha sostenuto il ministro Gaetano Manfredi, assicurando che sulla suddivisione delle risorse del Recovery Fund, “il diritto allo studio avrà un ruolo importante” (staremo a vedere). Anche perché, soprattutto in un momento come quello attuale, se i genitori perdono il lavoro, non possono iscrivere i figli all’università, in quanto le spese non sono solo quelle della didattica, ma per gli studenti fuori sede (e sono la gran parte), anche quelle elevate per vitto e alloggio. Ecco, quindi, che “modalità a distanza” e app sono aspetti che possono aiutare gli italiani a ritornare a iscriversi all’università e magari anche a laurearsi, visto che solo il 4% della popolazione 25/64 anni ha la laurea, contro il 17% della media tra i 36 paesi dell’Ocse. Percentuale che sale al 27% nella fascia 25/34 anni, ma sempre molto bassa rispetto al 44% della media degli altri paesi e che ci colloca al penultimo posto, davanti al Messico. Parafrasando la buonanima di Enzo Iannacci, se il “Messico (e nuvole) è la faccia triste dell’America”, noi lo siamo dell’Europa (almeno dell’UE), e – concludeva il geniale menestrello-poeta-dottore: “il vento insiste con l’armonica/ che voglia di piangere ho”.

Comments are closed.