L’OBIETTIVO DI MARIA…

intervista a Sergio Ramazzotti
By Gino Consorti
Pubblicato il 2 Maggio 2013

I Love Mary è il titolo del bellissimo e sorprendente volume pubblicato dal famoso fotogiornalista milanese. Numerose e inaspettate immagini della madre di Gesù sono finite, in maniera assolutamente magica ed enigmatica, nella sua macchina fotografica. Come se fosse la Madonna a cercarlo…

Maria di Nazareth, per noi cristiani, è il modello di come ciascuno è chiamato ad accogliere il dono che Gesù ci fa di se stesso nell’eucaristia. È colei che non si mette al centro dei riflettori, ma vuole semplicemente guidarci verso Dio. Ma anche ai non credenti, spesso, quel volto etereo e rassicurante riesce a trasmettere raggi di serenità che mirabilmente raggiungono il cuore. Insomma, è una straordinaria icona della chiesa, non solo madre di Gesù ma anche nostra comune madre, così globale e versatile che la trovi ovunque. Ne sa qualcosa Sergio Ramazzotti, un fotogiornalista di livello assoluto che con l’inseparabile macchina fotografica appesa al collo si è fatto cittadino del mondo mettendo nel mirino del suo obiettivo una visione dinamica della vita con le sue tante storie. Da alcuni mesi ha mandato in libreria il bellissimo volume I love Mary (More Mondadori, pp.480, euro 29,00) con 240 immagini di Maria di Nazareth selezionate tra oltre cinquemila fotografie scattate nei cinque continenti nell’arco di vent’anni. No-nostante un giorno la sua fede si sia “interrotta” mandando all’aria tutte le sue sicurezze e gli equilibri raggiunti, le storie narrate non hanno mai mostrato un pianeta raggelato nelle sue strutture e nella sua vita. La sua è la visione di un mondo in continuo movimento, con le sue tante brutture ma anche con rassicuranti e fertili segnali di vita. Venticinque anni di mestiere gli hanno insegnato che il mondo è fatto di uomini che lo abitano e che ciascuno di noi ha almeno una storia che è degna di essere raccontata e che magari potrebbe anche diventare un romanzo. Fondatore insieme ad altri tre fotogiornalisti italiani dell’agenzia ParalleloZero, che produce servizi di approfondimento e attualità, Sergio Ramazzotti ha firmato centinaia di reportage apparsi su diverse testate internazionali.

In questo libro-fotografico, edito dal giovane e coraggioso editore Francesco Mondadori, l’autore ha documentato la presenza della “madre di tutte le madri” in ambienti assolutamente diversi da quelli dove, solitamente, siamo abituati a vederla. Come sottolinea l’autore, la M di Maria è davvero un “logo globale”, ben più della G di Google, della F di Facebook e della T di Twitter… Tantissime di quelle foto nascondono storie che attraverso le cosiddette autostrade dell’informazione, non ultimo i canali del web, non ci sarebbero mai arrivate se qualcuno come Ramazzotti non avesse scelto di arricchirsi l’anima conoscendo il mondo e i suoi abitanti. È stupefacente, sfogliando le pagine di questo meraviglioso libro, vedere come la Madonna sia evocata ovunque. E come sorprendente sia il suo apparire in circostanze veramente magiche ed enigmatiche. Ovviamente, come nel trantran della nostra quotidianità dove iniquità e inquietudini, rappresentati dal nero e dal grigio, si alternano al verde della speranza e al celeste della serenità, anche nei tanti “scatti” di Ramazzotti compaiono immagini stridenti. Come ad esempio quelle della Vergine ritratta su un calcio di una pistola, nella dimora di un mafioso oppure tatuata sul petto di un assassino ergastolano… “Ma c’è qualcuno -, osserva nella presentazione l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente del pontificio Consiglio per la famiglia – che non abbia bisogno di una Madre, soprattutto quando si trova in un luogo sbagliato?”. Crediamo proprio di no…

Un’ultima considerazione: le belle storie, solitamente, funzionano sempre, ma se l’autore in questione non avesse incontrato un editore sensibile, brillante e fuori dagli schemi come Francesco Mondadori forse gli avvenimenti di I love Mary e dell’altro importante successo editoriale Afghanistan 2.0 sarebbero rimasti rinchiusi in qualche faldone impolverato…

Grazie alla piena disponibilità dell’autore e del suo editore ci siamo dati appuntamento a Milano, nel quartier generale di More Mondadori. Ramazzotti ha da poco disfatto le valigie ma il suo passaporto è di nuovo in bella vista sul comodino, pronto ad accogliere un nuovo sigillo di questo nostro pianeta…

Un credente che “non ha più la fortuna di credere” pubblica un bellissimo libro sulla madre di Gesù. Si può leggere come un primo passo verso la riconversione…?

Sono cresciuto in una famiglia cattolica fino al midollo, mia madre andava a messa tutte le mattine e io ho frequentato l’oratorio. Inoltre abbiamo anche un venerabile tra i nostri antenati, Angelo Ramazzotti, il fondatore del Pime, la cui presenza mi è stata sempre fatta pesare…

Poi cosa è accaduto?

Non si è trattato né di un capriccio né di una contestazione, tantomeno un processo rapido. è stato uno sviluppo lentissimo, estremamente graduale.

Determinato da cosa?

Sicuramente da tutto quello che ho visto in giro per il mondo. Può sembrare una banalità, ma facendo questo mestiere sei costretto ad avvicinarti il più possibile alle tragedie, ai tanti orrori che sei chiamato a documentare. Ecco, allora, che ti rendi conto di come il mondo, per la maggior parte, sia un luogo di ingiustizie e conflitti.

Un episodio in particolare?

Nel Sudan meridionale, ad esempio, per lunghi anni ho seguito la guerra civile. Ho visto bambini morire di malaria perché i farmaci che avrebbero potuto salvarli, e che sono forniti sporadicamente attraverso le organizzazioni non governative che operano nel paese, non sono arrivati in tempo… Quei piccoli cadaveri sono l’archetipo di tutte le brutture del mondo. Ovviamente non è solo quello, è il continuo depositarsi di strati di consapevolezza della malvagia del pianeta nella mia memoria e nel mio animo.

Però non è Dio che manda le ingiustizie, le sofferenze, la morte… Queste sono conseguenze del nostro essere limitati e quindi non onnipotenti…

Purtroppo a me è successo di arrivare in modo quasi fisiologico a non poter più tollerare la contraddizione così stridente fra il messaggio fondamentale del cristianesimo, il Dio di amore assoluto, e quello che quotidianamente il mondo ti presenta. A un certo punto, quindi, è stato inevitabile che la mia fede non potesse più essere una spiegazione soddisfacente e accettabile di tutto ciò che quasi ogni giorno ero chiamato a testimoniare. Per cui una mattina, dopo un lungo processo, mi sono ritrovato senza fede. A tutti quelli che hanno visto il mio libro e hanno ascoltato la sua genesi piace pensare che questo percorso di vent’anni, in cui volente o nolente ho incontrato la Madonna in giro per il mondo, possa rappresentare una sorta di chiamata dall’alto…

Tu, invece, a quale conclusione sei giunto?

Probabilmente piace anche a me pensarlo… Anche perché sicuramente non mi consola il fatto di aver perso la fede. Anzi, ci sono stati diversi momenti brutti nella mia vita, anche di recente, in cui il potermi aggrappare alla fede sarebbe stato importante e consolatorio.

Ti piacerebbe pensarlo ma…

Non sono in grado di dire se si tratta effettivamente di una chiamata. Forse prima del termine della mia vita la fede perduta… Sicuramente, però, il fenomeno è enigmatico.

Perché?

Perché durante questi anni non ho sicuramente cercato la figura della Vergine…

Vuol dire che dietro la pubblicazione di I love Mary non c’è alcuna progettualità?

Esattamente. La risposta più onesta che posso darti è che non ho la più pallida idea di come sia nato… Quando abbiamo deciso di trasformare questo corpus di immagini così vasto ed eterogeneo, dandogli una forma organica, è stato inevitabile meditare su questa figura che in qualche modo avevo accantonato mettendola in archivio. Così come ho fatto con tanti altri soggetti e immagini scattati in giro per il mondo che poi sono diventati delle collezioni all’interno dei faldoni. E uno di questi contenitori archiviato con il nome Madonne, appunto, conteneva circa cinquemila immagini…

L’esserti ritrovato con tante foto di Maria, scattate nel mondo in maniera non voluta, quale riflessione ti ha suscitato?

Che si trattava, appunto, di un fenomeno enigmatico. In tutti i momenti in cui ho scattato quelle foto, infatti, mi trovavo lì per fare altro, ero fortemente focalizzato su un’altra storia. In genere in questi casi il fotogiornalista ha un obiettivo ben preciso ed è sempre estremamente concentrato e sintonizzato su quella storia. Vedi solo la realtà attraverso la lente del formato dell’obiettivo dell’oggetto della tua narrazione. E in tutti questi casi l’oggetto della mia narrazione era completamente diverso dall’iconografia della Vergine nel mondo. Ma nonostante questa forte concentrazione ho sempre visto la Madonna… E come se nel mio unico momento di distrazione mi girassi e trovassi la Madonna…

è vero che nella difficile selezione diverse immagini si sono scelte da sole?

Proprio così, erano imprescindibili. Ci sono delle immagini della Vergine che procurano un contrasto incredibilmente stridente con il contesto in cui si trovano.

Ad esempio?

Quella tatuata sul petto di detenuto che ho incontrato nel carcere di massima sicurezza nelle Filippine. Questa foto è entrata tra le ultime nel libro in quanto il progetto editoriale è andato avanti per oltre un anno tra modifiche, ripensamenti, aggiustamenti e sequenza delle foto. Per una settimana mi sono trovato a fotografare all’interno di questo carcere. Un posto atroce, un girone dell’inferno pieno di stupratori pluriomicidi, terroristi condannati all’ergastolo. Poche settimane prima la polizia aveva fatto una retata arrestando parecchi membri di una gang di criminali il cui rito di iniziazione, fra le altre cose, prevedeva il tatuaggio di un’immagine della Madonna… Mi sono imbattuto, allora, con molti reclusi a torso nudo con l’immagine della Madonna tatuata ovunque. In alcuni casi costrette a condividere lo stesso spazio epidermico con dei soggetti piuttosto profani…

Non a caso l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente del pontificio Consiglio per la famiglia, nella prefazione del libro sottolinea che “Maria di Nazareth è evocata ovunque, sia nei luoghi giusti che in quelli sbagliati…”.

A mio avviso proprio in quei luoghi ci sarebbe bisogno della madre con la M maiuscola… Tantissime volte mi sono trovato a fotografare l’immagine della Vergine in luoghi inaspettati… Mi riferisco anche all’associazione in generale della figura della Madonna con l’arma da fuoco, un’immagine terribilmente stridente. Pur non essendo più credente confesso che questa sorta di associazione mi suscita un fastidio terribile…

C’è un posto più di altri dove non ti aspettavi d’incontrarla?

In generale potrei dire nel mondo islamico, non tanto perché la sua figura non sia riconosciuta, anzi, nel corano Maria è l’unica donna che viene menzionata per nome, ma per il fatto che nel mondo musulmano la rappresentazione della figura umana in genere, e meno che mai dei profeti, è considerata una blasfemia intollerabile, soprattutto dalle frange più ortodosse dell’islam.

Invece…?

Un giorno, a Kabul, mentre mi recavo a piedi a un appuntamento di lavoro, e quindi la mia testa era focalizzata su quello che avrei dovuto fotografare di lì a poco, girando un attimo lo sguardo vidi un negozio di tappeti che esponeva l’immagine di Ahmad Shāh Massoūd, il noto signore della guerra, un pluriomicida considerato un idolo in Afghanistan. Accanto a lui, però, campeggiava un’altra immagine: era quella della Vergine con il Sacrocuore… Mi fermai per chiedergli il perché di quell’accoppiamento e, come prevedevo, il commerciante non aveva la minima idea circa l’identità di quella bella signora. Un fornitore gli aveva proposto questo soggetto nuovo che lui pensava di vendere… Da più di un anno, però, quel tappeto con sopra la Madonna era rimasto sulla bancarella e lui non si spiegava il motivo… Gli dissi, allora, che si trattava dell’immagine della Vergine Maria.

Quale fu la sua reazione?

Ti lascio immaginare lo stupore… Quella foto chiude il mio libro.

Mentre ad aprirlo è l’immagine di una ragazza con in braccio un bambino…

È una ragazza pakistana. Quella è una fotografia veramente magica…

Perché?

L’ho scattata durante il mio unico servizio che aveva per soggetto proprio la Vergine Maria. Mi trovavo nel piccolo villaggio di montagna chiamato Murree, nel Punjab pakistano, per fotografare un misterioso monumento…

Dedicato a chi?

Una tomba di pietra che da tempo immemorabile la gente del posto venera come il sepolcro di Mariam, la Vergine madre di Issa, profeta di Allah. Secondo una tradizione locale, infatti, dopo che Gesù fu assunto in cielo – il corano nega la crocifissione – Maria fuggì verso oriente finché, stremata dalle fatiche, trovò la morte alle pendici dell’Himalaya e qui fu sepolta. Dopo aver fotografato la tomba e il paesino e raccolte le testimonianze dell’imam e di un prete cattolico, mi mancava la cosa più importante…

Cioè?

Una storia forte, proprio dal punto di vista iconografico, non ce l’avevo. Soprat-tutto mancava la foto di apertura, l’incubo di ogni fotogiornalista… Non avevo l’apertura e il mio tempo stava finendo, anzi, era il mio ultimo giorno in quel luogo. Tutto triste e inquieto, allora, andai a fare un giro nel bazar e a un certo punto vidi questa ragazza. Una magia pura. La Vergine che mi era venuta in soccorso consegnandomi la foto dell’apertura… Avvertii questo, e lo dico senza voler essere blasfemo, ci mancherebbe. Una giovane seduta su un muretto con un bimbo piccolo in grembo. Indossava uno chador che, a parte il colore fucsia, sembrava le fosse stato drappeggiato addosso da Cimabue in persona. Mi fissava con uno sguardo pieno di dolcezza. Ma soprattutto nel sedersi si era inconsapevolmente appoggiata contro un segnale stradale di cui era rimasta solo la cornice, un cerchio di ferro arrugginito che troneggiava esattamente dietro la sua testa formando una perfetta aureola. Credo fu allora che decisi di fotografare la Madonna ogni qualvolta l’avessi vista, o meglio ogni volta che lei avesse voluto mostrarsi…

Ma durante i tuoi numerosi reportage, soprattutto in territori di guerra e morte, hai mai avvertito il bisogno d’incontrare il volto rassicurante di Maria?

Mi è capitato tantissime volte. Lavoro sempre da solo e di conseguenza, ahimè, la solitudine è diventata una dimensione a cui ho dovuto fare il callo. Spesso, però, ci sono momenti molto duri. Magari hai passato una brutta giornata, hai visto cose che avresti preferito non vedere e alla fine ti ritrovi da solo nella tua stanza d’albergo a misurarti con le sensazioni della giornata, con i tuoi ricordi e con quei pesanti strati di consapevolezza di cui parlavo prima. E quando ne aggiungi uno devi metabolizzarlo sapendo, però, che comunque resterà lì, si trasformerà in un incubo, in immagini che ti perseguiteranno, che affioreranno dal profondo anche nei momenti più impensati. Ecco, allora, che in tanti casi la fede mi sarebbe stata utile, ho avvertito forte la sua mancanza…

Qual è l’immagine che più di altre ti perseguita?

Quella morente di un bellissimo ragazzo afghano. Stavo lavorando a una storia su un grosso edificio di Kabul che una volta ospitava il centro culturale sovietico. Una struttura abbandonata e devastata da trent’anni di guerra che nel tempo era diventata il ritrovo di qualche migliaio di tossicodipendenti che trascorrevano lì le loro giornate fumando droga e bucandosi con l’eroina. Insomma, un vero e proprio girone dell’inferno. Ci andai più giorni per documentare questa situazione e in una delle tantissime stanze che erano come delle cripte, trovai questo ragazzo. Stava da solo ed era completamente rapito dall’effetto dell’eroina. Lo vidi degradarsi giorno dopo giorno, era negli stadi finali della tossicodipendenza. Il giorno che scattai la foto probabilmente era in fibrillazione cardiaca. Aveva lo sguardo della morte…

Cosa hai pensato prima di premere il dito sulla macchina fotografica?

Faccio o no questa foto, invadendo il momento supremo della privacy di un essere umano e confrontandomi, poi, con le conseguenze per il resto della mia vita? È un atto di violenza supremo, ho pensato, però porto a casa un’immagine importante che serve a raccontare questa storia. Forse in quei momenti ti senti anche un avvoltoio, ma d’altra parte sei lì a lavorare… Nonostante tutto, comunque, a me, dopo 25 anni di questo mestiere, piace pensare che ci sia anche della nobiltà in questa professione. Sono lì, allora, a fotografare gente in condizioni meno che umane, di degrado spaventoso perché mi piace pensare che magari quella storia sarà vista da qualcuno che, trovandosi nella posizione giusta, potrebbe fare qualcosa per cambiare le cose…

Ma non c’era alcuna possibilità di salvare la vita al ragazzo?

Dissi al mio interprete di chiamare l’ambulanza in un disperato tentativo d’aiuto, ma lui mi aveva raggelato rispondendomi che in quel luogo un’ambulanza non sarebbe mai venuta… Sollecitato da me ci provò lo stesso, purtroppo non arrivò nessuno…

Tu però un’alternativa ce l’avevi, avresti potuto non scattare la foto…

Sì e scegliere di avere una storia molto meno forte. In compenso, però, non avrei dovuto confrontarmi con le conseguenze morali… Alla fine, però, decisi di scattarla. Il ragazzo morì poco dopo e purtroppo quella foto è diventata uno dei miei più grandi incubi che di tanto in tanto torna a perseguitarmi.

Provo a immaginarmi la notte trascorsa dopo quello scatto…

Fu terribile… Una volta in albergo mi ritrovai, come sempre, solo nella camera. Provai a dormire, ma quell’immagine era lì, davanti ai miei occhi. Cercai di scacciarla via ma tornava sempre a trovarmi con quegli occhi persi nel vuoto che mi fissavano… Se in quel momento, oltre che a me stesso avessi potuto anche solo chiedere perdono a qualcun altro per quello che avevo fatto, sarebbe stato un grande conforto…

Oggi rifaresti quella foto?

Sì. Quando scegli di fare questo mestiere devi saperlo fin dal principio. Alcuni grandi maestri che ho avuto la fortuna di conoscere e da cui ho appreso grandi lezioni di fotogiornalismo e di vita, mi avevano messo in guardia. Se vuoi veramente fare questo mestiere, mi ripetevano, devi essere pronto a confrontarti con le possibili conseguenze…

Ma c’è un clic che è rimasto nell’indice della tua mano…?

Ce ne sono tantissimi…

Uno in particolare?

Una volta in Nigeria, a Lagos, ero in macchina con l’autista nel traffico dell’ora di punta, alle cinque del pomeriggio. Era un tratto di strada dove si andava a passo d’uomo. Ai lati c’era un prato digradante e, a un centinaio di metri, una foresta. A un certo punto, dalla foresta, uscì un ragazzo che correva come un indemoniato. Era inseguito da una decina di giovani armati di bastoni e mazze. Dopo averlo raggiunto iniziarono a picchiarlo selvaggiamente. L’autista, allora, mi disse che sicuramente si trattava di un ladro sorpreso a rubare. Accostò la macchina invitandomi a scendere. “Ti faccio vedere – mi disse – quanto vale la vita in Nigeria…”. Il tono della sua voce non tradì alcuna emozione, per lui quello era uno spettacolo di routine…  Mi avvicinai, allora, con le mie inseparabili macchine fotografiche appese al collo. In quella situazione non c’era neanche da pensare di mettersi in mezzo per salvare quel povero ragazzo…

Perché?

Intanto gli aggressori era-no in dieci e poi erano veramente come un branco di squali che sente l’odore del sangue. Probabilmente non li avrebbero fermati neanche dieci incursori armati. Allora, impotente come uno spettatore al cinema, restai immobile a guardare l’orribile scena. Mentre lo picchiavano violentemente uno degli aggressori si procurò una tanica di benzina. Era ancora vivo quando gliela rovesciarono addosso dandogli fuoco… Un qualcosa di atroce che avrei preferito non vedere. Ero lì per seguire tutta un’altra storia, quella immagine non sarebbe stata funzionale alla mia narrazione, ma per una sorta di riflesso condizionato presi in mano la macchina fotografica… In quel preciso istante, però, uno dei giustizieri mi vide e voltandosi mi gridò in inglese: “Uomo bianco, devi pagare per lo spettacolo…”. Lo spettacolo? Una frase raggelante che mi lasciò come un imbecille… Lo spettacolo? ripetevo tra me e me… A quel punto lasciai cadere dalle mani la macchina fotografica… Forse se l’avessi scattata non l’avrei mai pubblicata, mi sarei sentito ancora più “complice” di quel gruppo omicida…

Invece cosa avvenne a bordo di un peschereccio utilizzato dai rivoluzionari libici di Bengasi per portare aiuti a Misurata?

Un altro episodio “strano” dove ho avuto veramente paura. Quella paura che deriva dalla tensione e dall’incertezza. La guerra, ha detto qualcuno, è un 10% di azione e 90% di noia… Effettivamente è così, stai lì una settimana e non accade nulla, in dieci minuti, invece, succede il finimondo… Quel 90% di noia, però, contiene anche un 90% di tensione e di ansia che monta… In Afghanistan, ad esempio, è così. Non succede mai niente, vai in pattuglia con i convogli, ti fai decine e decine di chilometri a 30 all’ora, non ne puoi più, vuoi solo scendere dal tuo blindato Lince. Quella, però, non è noia, è tensione perché sai che a ogni metro potresti saltare in aria. È un’ansia mostruosa. Quello vissuto al largo del porto di Misurata era uno di quei momenti, non succedeva niente ma la tensione si tagliava a fette. Eravamo alla fonda, a un paio di miglia dall’imboccatura del porto di Misurata. Sulla città ogni tanto cadeva un missile, però noi eravamo relativamente sicuri. A bordo di questo peschereccio avevamo una quantità mostruosa di munizioni e tra l’altro era da due giorni che pativo le pene dell’inferno…?

Per quale motivo?

Il comandante, quasi con orgoglio, mi ricordava spesso che a bordo avevamo circa dodici tonnellate di munizioni, esplosivi, razzi, proiettili… Le cassette erano una sopra l’altra e a pochi metri c’erano una quarantina di combattenti, armati fino ai denti, che fumavano in continuazione. Voi siete matti, gli dicevo, se non ci fanno saltare in aria con un missile ci riuscirete voi con le sigarette… Una traversata senza fine, dunque, si andava ad appena a sei nodi. Dio solo sa ciò che ho patito… In quel viaggio mi ero portato Il Paradiso di Dante così, con l’avvicinarsi della sera, decisi di andare in cabina per provare a leggere. Entrai e sul mio letto trovai il cellulare del meccanico del peschereccio con cui condividevo la cabina. Era un giovane nigeriano, l’unico cristiano a bordo tra una cinquantina di musulmani libici. Presi dunque il cellulare per restituirglielo e nel girarlo, appiccicata con il nastro adesivo, vidi una piccola immagine della Madonna che mi guardava…

Cosa hai provato in quel momento?

Caspita, vederla mi ha fatto sentire proprio bene…, ero più che felice. Non so dirti se quella felicità derivasse dal fatto di sentirmi in qualche modo protetto… Fatto sta, però, che quella immagine mi ha ricondotto in qualche modo verso casa, verso la mia infanzia, verso questa figura esemplare della madre. E solo Dio sa quanto mi sarebbe piaciuto essere a casa quella sera…

Ma oggi cosa rappresenta per te la Vergine Maria?

Non lo so più… Certamente è una figura molto intrigante che mi ha dato da pensare per la sua incredibile versatilità, per come riesce a essere multiforme, ad adattarsi all’ambiente che la circonda mutando quasi come un virus. Non me ne vogliano i lettori de L’Eco di questo mio paragone che potrebbe sembrare irriverente, lungi da me la blasfemia. Lei muta, si adatta, sopravvive ed evoca nella testa della gente. Forse sarà un po’ banale dire che è la figura della madre che tutti avremmo voluto, la donna più bella del mondo che ciascuno di noi, da piccolo, ha pensato fosse la propria madre… Mi affascina tantissimo il suo essere così multiforme, versatile, transnazionale e transculturale. Tutto ciò, però, mi suscita una riflessione…

Di che tipo?

Riguarda la debolezza umana. Il fatto che la Vergine, molto più che Gesù Cristo o Dio, sia rappresentata a nostra immagine e somiglianza mi fa capire che il bisogno di tangibilità nei suoi confronti è molto superiore. L’immagine di Gesù Cristo, in sostanza, è sempre quella. Non ho mai visto, ad esempio, un Gesù con gli occhi a mandorla, oppure nero con i tratti bantu, o ancora un Gesù vestito come un bramino indiano. La Vergine, invece, la vedi vestita con gli abiti e i tratti somatici della gente del posto. Noi ci siamo costruiti la mamma e forse, a mio avviso, ci farebbe bene superare questo materialismo iconografico riuscendo ad avere, con uno sforzo supremo, la fortuna di credere nel principio fondamentale d’amore e non, invece, in una bella faccia.

Hai mai pensato che forse oggi la Madonna è maggiormente presente nei tuoi pensieri rispetto a quando, invece, avevi la fede…?

Riflettendoci bene credo sia così… Forse prima la consideravo un qualcosa di scontato. Da quando ho interrotto il nostro rapporto, invece, mi segue dappertutto…

L’ultima volta dove è accaduto?

A Bangalore, in India. Lo scorso febbraio, giunto all’aeroporto, venne a prendermi una guida per accompagnarmi da un partner commerciale della nostra agenzia fotografica. Viaggiammo circa un’ora per raggiungere l’ufficio che si trovava in un quartiere a popolazione mista, un po’ indù un po’cristiana. Durante l’intero tragitto controllai le tante mail che mi erano arrivate. Non alzai mai la testa. A un certo punto la macchina si fermò e l’autista mi disse che forse eravamo arrivati. Per la prima volta, allora, sollevai lo sguardo girandomi verso di lui. A pochi centimetri, su un lato della strada, c’era una piccola edicola della Madonna… Ripeto, tutto questo è molto strano, difficile da spiegare.

Quanto è stato importante per te e per le tue storie incontrare un editore lungimirante come Francesco Mondadori?

È stato fondamentale.

Il motivo?

Tanti editori, anche di libri, purtroppo hanno la presunzione di pensare che certe storie non abbiano più ragione a essere raccontate.

Invece?

Il vero ruolo di un editore è diffondere la cultura, pungolare, ampliare la percezione del mondo e della realtà. Fran-cesco Mondadori con le sue idee così moderne ha saputo raccogliere splendidamente una tradizione di qualità e di attenzione.

Ma com’è la vita di un fotogiornalista di guerra?

Di quale vita parli…? Scherzo, è una bella vita, non hai tempo di annoiarti… Comunque non sono solo un fotogiornalista di guerra, ho fatto anche altro. Credo che nessuno lo sia, anche perché difficilmente ne uscirebbe sano… Tanti fotorepoter che hanno seguito solo le guerre si sono suicidati… Psicologicamente è molto pesante. Io, per fortuna, sono vittima solo, di tanto in tanto, di alcuni ricordi sgradevoli che riaffiorano…

Perché hai scelto questo mestiere?

Perché ho sempre adorato raccontare storie, sia con la parola, sia con le immagini. Fu proprio all’oratorio che i miei mi iscrissero a un corso di fotografia, avevo circa 14 anni. Spesso rubavo la macchinetta a mio padre e scattavo fotografie qui e là. Un giorno, poi, i miei genitori mi regalarono un libro del famoso giornalista e documentarista Folco Quilici. S’intitolava Io Africa, lo conservo ancora come fosse una reliquia… Da lì si è scatenata la passione.

La prossima storia dove ti porterà?

Nelle Filippine.

E su chi punterai l’obiettivo della tua macchina fotografica?

Farò visita a due missionari le cui lodevoli opere, a mio avviso, meritano di essere conosciute. Inoltre voglio raccontare una incredibile storia sui call center, un fenomeno sociale pazzesco. A Manila ci sono oltre 400 mila dipendenti, tutti giovanissimi. È un lavoro molto popolare perché i filippini, soprattutto quelli dell’ultima generazione, parlano un inglese perfetto e quindi lavorano tanto con gli Stati Uniti. Per una questione di fuso orario, però, operano e vivono di notte, di conseguenza questi call center si sono trasformati in micro città in cui succede di tutto.

Tipo?

Alle 6 del mattino, ad esempio, quando hanno finito il turno, si organizza un grande concerto rock solo per loro… E a vederlo vanno in cinquemila… Oppure, purtroppo, succede che ogni tanto trovano un feto dentro il water… Lì si accoppiano, partoriscono, tutta la loro vita si svolge lì. Sono degli alienati totali…

Chiudiamo questa nostra “storia”, Sergio, con una foto made in Italy: con quale immagine rappresenteresti l’attuale situazione politica…?

Questa volta mi hai chiuso in un angolo, fammi pensare… Trovato: fotograferei L’urlo di Munch…

 

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