L’ESPANSIONISMO DI PECHINO UN PERICOLO DA NON SOTTOVALUTARE

il problema Cina
By Angelo Paoluzi
Pubblicato il 29 Febbraio 2016

In questo anno il Pil crescerà di “appena” il 6%. Un risultato  insufficiente ad appagare le ambizioni e tranquillizzare le finanze mondiali. Il problema del 2016 sarà la Cina. Il paese più popoloso della terra (1,3 miliardi di abitanti), e seconda economia del pianeta, quest’anno vedrà aumentare solo del 6,3% il  prodotto interno lordo, il peggiore risultato da 25 anni a questa pare; nel 2017 il Pil crescerà di “appena” il 6%. Un risultato  insufficiente ad appagare le ambizioni di Pechino e tranquillizzare le finanze mondiali. All’inizio del 2016 in pochi giorni lo yuan è stato svalutato due volte, rivelando le debolezze del sistema: rallentamento in dieci mesi di attività produttive  e inizio di recessione industriale, diminuzione di riserve monetarie, aumento di tensioni sociali – si parla di almeno mille rivolte locali -, difficoltà in specie nell’edilizia, indebitamento dei privati e risultati negativi  delle piazze finanziarie, Shanghai e Shenzhen. Mettendo in crisi i paesi importatori e le economie emergenti, che contavano sugli scambi commerciali con Pechino. Vengono al pettine i nodi di uno sviluppo  contraddittorio, in un quadro di debolezze di sistema, col rischio di possibili tensioni internazionale in una misura non inferiore, anche se messa in seconda linea, alla crisi in atto in Medio Oriente.

Come si può vedere infatti, accanto agli indubbi successi della politica cinese, anche con gli altrettanto indubbi fallimenti. Il primo a Taiwan: qui ha vinto, alle elezioni di gennaio, il partito democratico-progressista di Tsai Ing-Wen, una economista salita alla presidenza e confortata dalla maggioranza assoluta in parlamento. I taiwanesi hanno ribadito di volere l’indipendenza dalla Cina che invece continua, dopo 66 anni di divisione, a considerare l’isola come territorio metropolitano. Non è la sola grana per Pechino: tensione con la minoranza di musulmani uiguri nella provincia nord occidentale del Singkiang; in Tibet si continua a contestare l’occupazione, a Hong Kong si reprime la resistenza democratica. A parte i rapporti con le minoranze religiose e le ripetute violazioni dei diritti dell’uomo: argomenti sui quali la Cina vuole imporre il silenzio a chi tratta affari con lei. E poi i contrasti con Filippine, Vietnam, Malaysia e  Taiwan per il possesso di isole e isolotti sparsi nel Mar cinese meridionale, e di cui Pechino rivendica la sovranità, rifiutando l’arbitraggio della corte dell’Aja. Alla Cina si contesta di violare numerose norme del diritto del mare: la tensione nell’area resta piuttosto alta e con reciproche provocazioni a base di sorvoli aerei e manovre navali. La repubblica popolare non fa mistero delle proprie ambizioni espansionistiche: con un esercito di due milioni di soldati, le spese militari gravano sul bilancio per 150 miliardi di dollari, quasi il 2,5% del Pil, in aumento di un decimo rispetto al 2014.

Un altro insuccesso riguarda l’imposizione del figlio unico, cancellata all’inizio del 2016. Dopo 36 anni e 400 milioni di mancate nascite e aborti forzati, la Cina si ritrova con 88 milioni di famiglie – un quarto della popolazione – di età superiore ai 65 anni. La diminuzione della forza lavoro (nel 2030 ci saranno 210 milioni di anziani) si tradurrà in maggior onere per lo stato; soltanto una ripresa demografica, difficilmente ipotizzabile prima del 2050, assicurerebbe un nuovo slancio, anche per un pesante handicap generativo, 117 maschi ogni 100 donne. Ha detto un economista francese: il paese rischia di essere vecchio prima di essere ricco. Sul piano dei successi, lo yuan è entrato nel “cesto” delle monete di riferimento per le transazioni internazionali (dollaro, euro, yen giapponese, sterlina). Ma non tutti gli economisti sono concordi sull’utilità di un inserimento “drogato”, poco trasparente e difficilmente controllabile. Anche qui ci si attendono tensioni.

E ancora, Pechino sta in pratica conquistando l’Africa: quarta per investimenti dopo Francia, Usa e Gran Bretagna, con 2500 progetti avviati in 51 paesi del continente (9 soltanto sono gli esclusi), con 222 miliardi di dollari stanziati per lo sviluppo, specialmente in ferrovie e strade, e una recente tranche di altri  60 miliardi. Di recente si sono levate accuse di sfruttamento e neocolonialismo, in Zambia, Kenya, Tanzania, Ghana e Senegal, specialmente per le mancate ricadute economiche locali.

La presenza di governi facilmente corruttibili ha fatto mettere in alcuni casi a tacere i risentimenti contro quel milione di cinesi che ormai controllano parecchie amministrazioni africane. Tuttavia anche Pechino si è resa conto di non poter restare alla finestra e ha contribuito con 8mila soldati e 100 milioni di dollari al contingente Onu per la pace. Un gesto che, insieme con l’accordo per il miglioramento del clima e la proposta mediazione per un’intesa in Afghanistan, dà alla Cina un ruolo positivo negli affari del mondo. Purché non sia soltanto apparenza.

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