LE TRACCE DELLA VITA

Questo che sto scrivendo non è un articolo. È piuttosto una confessione, una confidenza fra autore e lettore. E la confessione è questa: quando non ci sarò più cosa avrò lasciato ai miei figli? È un pensiero che mi è venuto molte volte e molte volte si è attorcigliato dentro di me come un laccio che chiede solo di essere sciolto. Si possono lasciare ai figli tanti soldi, case e ville, auto di pregio, conti in Svizzera o in qualche paradiso fiscale, qualche pacchetto di azioni importanti che permetterà ai nostri discendenti di non avere preoccupazioni. Ma onestamente non è il mio caso. Perché palazzi e ville possono essere venduti, le azioni svalutate, la ricchezza sperperata. Scompaiono anche i grandi patrimoni perché il denaro avuto per eredità-male amministrato- spesso dilegua perché non sa di sudore e di fatica.

Allora non lascerò niente? Mi è venuta la parola mentre mi arrovellavo su questo pensiero. Devi lasciare – mi dicevo – delle tracce. Come quando un carro attraversa un terreno fangoso e lascia un’impronta sul terreno, così è della vita e dei figli. Lasciare una traccia, profonda o leggera che qualcuno domani possa seguire.

Certo le tracce possono essere di vario carattere. Ci sono orme conficcate nella neve che nessuna bufera potrà seppellire e ci sono orme appena visibili, una debole traccia, che una tempesta potrà disperdere. Forse la cosa più dolorosa sarà lasciare dietro di sé brutti ricordi.

Un caro amico, molti anni fa, in uno di quei rari momenti di confidenza, mi disse che c’era un’immagine che niente avrebbe potuto cancellare, le liti dei propri genitori che non si separarono mai ma che litigarono ogni giorno, fino alla morte. “È tutto quello che mi resta”, disse. Forse molti ragazzi o bambini conserveranno nella loro memoria questi litigi, queste incomprensioni, questi scontri spesso non solo verbali e io credo che scene così rimarranno impresse non come un patrimonio ma come un incubo che non si spegnerà.

Cosa lasciare allora? Le tracce a cui penso sono fatte di voci, di suoni, di parole sussurrate, di musiche, di ninnenanne, di canti, di baci d’una madre che accompagna ogni mattina il figlio a scuola, una vacanza in montagna o al mare, un capodanno festoso. E resteranno – purtroppo – anche immagini drammatiche, di paura, di avvilimento, di morte. Penso ai tanti ragazzi che sono cresciuti in Irak o in Vietnam o in Afganistan o in Siria, ragazzi che porteranno con sé immagini di bombardamenti, di case smozzicate, di fughe nella notte, di arresti, di cadaveri abbandonati in mezzo la strada. Anche questi sono ricordi e le tracce lasciate serviranno solo come desiderio di un mondo di pace. C’è un bel libro che si intitola “Non odierò” ed è il racconto di un padre – nella striscia di Gaza – che una cannonata priva dei tre figli e della moglie. Lui sarà capace di perdonare ma sarà questo per sempre il suo tragico ricordo, la sua orma indelebile.

E invece sarebbe bello se ciascuno di noi avesse in serbo – in quell’angolo della mente dove si annidano le immagini di un passato lieto o triste – sarebbe bello che restassero invece delle tracce di felicità e di speranza a cui ritornare domani nei giorni bui. Qualcosa che anche nei momenti grigi brilli come un segnale da non perdere, come quando in montagna si scorgono sugli alberi quei segnali rossi che indicano il sentiero.

Noi non sappiamo cosa lasceremo dietro di noi, cosa rimarrà impresso nella memoria dei nostri figli. Però dovremo chiederci – nei momenti in cui si è soli con se stessi – se abbiamo lasciato delle tracce che i figli, e anche i nipoti, potranno seguire senza smarrirsi. È la sola eredità che non si disperde, l’unico tesoro che nessuno potrà rubare, l’unico profumo che non svanirà.