la Nostra incantevole Italia

l'intervista
By Gino Consorti
Pubblicato il 30 Gennaio 2018

Ventidue cartoline e settant’anni di storia. Questi gli ingredienti magici dell’interessante viaggio compiuto da Pino Corrias nella Nostra incantevole Italia. Un libro dove il noto e apprezzato scrittore, giornalista e sceneggiatore, nonché autentico esperto del mondo della politica, del costume e dello spettacolo, ci guida con grande maestria. Una penna intelligente e preziosissima per muoversi in un labirinto di storie, luoghi e personaggi che hanno cambiato la nostra storia. “Questo libro – spiega l’autore – è una geografia che prova a mettere ordine nel disordine della nostra storia…”. Si tratta di eventi a cavallo di più generazioni che restano scolpiti nella mente e che nello stesso tempo attraverso un sottile filo rosso legano passato presente e futuro di un paese sì incantevole ma marchiato da verità doppie e provvisorie…Un lungo e faticoso lavoro, dunque, soffermandosi con arguzia e professionalità su aspetti ancora sconosciuti o, come osserva Corrias, “troppo volutamente ignorati”.

Dalla strage di Portella della Ginestra ai depistaggi di Piazza Fontana; dall’omicidio di Pasolini alla strage di Capaci e la cattura di Riina; dai drammi del Vajont, di Cogne e Vermicino alle macerie dell’Aquila e l’uso politico della tragedia. Insomma, non manca nulla. Dal titolo, però, il quadro non sembrerebbe così funesto… O quanto meno sembrerebbe lasciare spazio a qualche però… È così Corrias? “Di cose che non vanno – sottolinea – c’è un vasto campionario…Siamo ad esempio il paese del doppio stato, della doppia velocità di crescita tra il Nord e il Sud, ammalato di quattro mafie. Siamo il paese delle commissioni di inchiesta. Ne abbiamo avute ottantasei in una settantina di anni… Siamo una incantevole Italia appesa a testa in giù, con 2300 miliardi di debito pubblico, il 130 per cento del nostro Prodotto nazionale lordo. Dipendiamo dallo spread e facciamo finta di dimenticarcene anche se pesa come una catastrofe sempre imminente. Evadiamo 111 miliardi di tasse ogni anno, senza riuscire a porvi rimedio, come sa fare qualunque altro paese, appena superato il confine di Chiasso. Tre milioni e mezzo di persone lavorano in nero. L’economia sommersa vale 208 miliardi. Quella legale è ammalata di clientelismo, familismo, confraternite, cordate, tutte forme non sanguinarie della cultura mafiosa che coltiviamo dal basso. Perfezionando una trappola che mette in fuga migliaia di giovani laureati, ricercatori, imprenditori, artisti che cercano fortuna altrove, a Londra, Berlino, New York, lontano dalle falangi di raccomandati, figli, nipoti, portaborse delle infinite nomenklature che intasano tutte le tubature della Repubblica….

Una bella lista…

Che ovviamente non finisce qui… Strilliamo contro gli immigrati, ma sappiamo come sfruttarli a fondo, nelle fabbriche del Nord, nelle campagne del Sud, persino nei centri di prima accoglienza, dove rubiamo loro gli spiccioli dell’assistenza, e dentro le casse dell’Inps, dove versano più di quello che otterranno. Vorremmo ributtarli in mare, salvo quelli che ci servono per la cura della casa, dei nostri figli, dei nostri anziani. Abbiamo la classe politica tra le più corrotte d’Europa, la più ignorante, ma che è lo specchio fedele di un paese che muore di furbizia e conformismo. Dove si venera a chiacchiere la famiglia, ma non si consente alle giovani coppie di avere un lavoro decente e di fare figli…

Eppure…

Andrebbe sempre ricordato da dove siamo partiti, cosa eravamo settanta anni fa, residui di un paese fascista, razzista, analfabeta, distrutto dalla guerra costata mezzo milione di morti, e nutrito dai massacri compiuti dai nostri italiani brava gente in Albania, Grecia, Jugoslavia, Eritrea, Libia, dove abbiamo stuprato, impiccato, torturato. Per poi essere sconfitti dagli angloamericani, puniti, sottomessi. E poi salvati grazie al riscatto finale della Resistenza, e agli equilibri della Guerra fredda. Che ci hanno consentito di entrare nel nuovo consorzio di nazioni europee uscite anche loro distrutte dalla guerra, dalle dittature, dalla Shoah, dall’orrore. Tutti paesi in ginocchio, non solo noi e la Germania, gli sconfitti, ma anche l’Inghilterra e la Francia, i vincitori. Coi quali abbiamo imboccato l’unica via di rinascita possibile, quella dell’Europa unita. Imperfetta, burocratica, lenta, ma che ci ha garantito uno sviluppo economico e culturale mai visto prima. La copertura della moneta unica, il mercato senza frontiere. Oltre a settant’anni di pace che ha voluto dire intelligenza non sprecata a ucciderci. Ha voluto dire democrazia, tolleranza, giustizia, emancipazione femminile, diritti delle minoranze, benessere sociale.

Tra le ventidue cartoline realizzate, anche per non svelare l’intero contenuto di un lavoro assolutamente da gustare fino all’ultima pagina, il mese di febbraio ci suggerisce di soffermarci su quella che ritrae il Festival di Sanremo. Un appuntamento dagli ascolti televisivi milionari che proprio in questi giorni alza il sipario sulla sessantottesima edizione. Lei la definisce una “cerimonia unica in Italia, in Europa, nel mondo dove in cinque giorni si fa proprio il contrario della raccolta differenziata nazionale…”.

Sì, perché dentro ci finisce di tutto: musica, parole, vanità. E quel tutto, a ripensarlo, è anno dopo anno lo spirito del tempo. Che fuggevolmente si deposita. Diventa uno strato di memoria. Un campionario di oggetti smarriti, non solo canzonette, che ci aiuteranno a regolare gli orologi. A dirci che è l’ora del sortilegio, quando tutto il presente di un anno appena trascorso torna sul palco, si inchina, canta. Poi passa.

Tra gli ascolti televisivi milionari, le interferenze del gossip, gli scandali e naturalmente le evoluzioni della melodia italiana, la storia del Festival purtroppo ci racconta anche una tragedia vera. La notte tra il 26 e il 27 settembre 1967 Luigi Tenco si spara un colpo di pistola, dopo essere stato eliminato dalla gara…

Lasciandosi tra l’altro alle spalle anche il mistero di un biglietto d’addio di disarmante ingenuità…

Una pagina nera su cui aleggiano ancora tanti misteri…

Proprio così… Siccome la tragedia non è prevista dal copione di Sanremo, il cadavere viene rimosso due volte. La prima, nella notte, dalla camera 219 dell’Hotel Savoy. La seconda dal palcoscenico dell’Ariston che la sera dopo si riaccende come nulla fosse, con un Mike Bongiorno che occulta Tenco dentro una frase che neanche lo nomina: “Signore e signori buonasera. Diamo inizio alla seconda serata con una nota di mestizia per il triste evento che ha colpito un valoroso rappresentante del mondo della canzone. Anche questa sera, per presentare le canzoni, è con me Renata Mauro. Allora, Renata, chi è il primo cantante di questa serata?”.

Lei la chiama la magnifica indifferenza…

La magnifica indifferenza di Mike, degli altri cantanti, della Rai di allora, dei discografici, e naturalmente del pubblico vicino e lontano, rivela la lucentezza senza profondità del Festival e involontariamente il suo segreto, che è quello di scivolare sempre sulla superficie delle cose, senza mai lasciarsi né scalfire, né imprigionare dalla vita vera, limitandosi a addormentarla, come farebbe una fiaba così speciale che ogni anno, azzerata la memoria, ricomincia da capo e non finisce.

Cosa accadde quella sera

Alle 21 del 26 gennaio Tenco sale sul palcoscenico, bianco di faccia e senza voce. Quando tocca a lui Mike Bongiorno lo spinge a forza: “Fai vedere chi sei”. L’esibizione è un disastro. La giuria lo boccia spalancandogli l’ultima notte alcolica. Di nuovo si sente come se “il mondo gli crollasse addosso”, il ragazzo senza nome, il figlio senza padre. All’uscita litiga con un fotografo, parte sgommando. Un’ora dopo torna al Festival ubriaco fradicio, si addormenta su una cassapanca del Casinò. A mezzanotte accompagna la sua nuova fidanzata Dalida, la cantante francese conturbante e fragile, con cui ha deciso di condividere l’avventura di Sanremo, al Nostromo, cena offerta dalla casa discografica. Ma lui non resta, se ne va in albergo da solo. Per un’ora e mezzo non lo vede e non lo sente nessuno. Fino alle 2.10, quando Dalida, rientrata in albergo, bussa alla stanza di Tenco per vedere come sta e spalanca la porta.

Accanto al cadavere e alla pistola Walther Ppk che aveva regolarmente acquistata, fu trovato anche un biglietto d’addio…

Che recitava così: “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale e una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi”.

Le cronache raccontarono che nessuno sentì lo sparo…

Vero, ma il grido di Dalida, davanti al cadavere, lo sentono tutti. Escono dalle stanze Lucio Dalla, Jimmy Fontana e Sandro Ciotti. Poi compaiono tutti gli altri. Alle tre arriva anche il commissario di Polizia Arrigo Molinari, che prima di uscire di casa avverte il suo amico giornalista dell’Ansa Marco Benedetto, scatenando fotografi e reporter. Il medico legale, nella piena baraonda del Savoy, annota: “È evidente la posizione del cadavere assunta come conseguenza di ferita da arma da fuoco a scopo suicida”. Firmato il referto, il corpo viene portato all’obitorio. Ma alle 4.15, contrordine: il corpo deve essere riportato di corsa nella stanza d’albergo perché si sono dimenticati di fare le fotografie per il magistrato. La scena del delitto viene ricostruita a memoria e malamente: le gambe di Tenco finiscono per metà sotto al letto, la pistola addirittura sotto la coscia. Tutti dettagli che, non coincidendo più con la scena autentica, alimenteranno i dubbi degli anni a venire.

Tutta colpa del commissario Molinari?

Le incredibili disavventure del commissario Molinari sono una storia nella storia: non fa indagini, non trova testimoni, non recupera il proiettile fuoriuscito dalla testa, non fa fare l’autopsia, lascia partire Dalida che all’alba se ne torna in Francia con il suo ex marito, Lucien Morisse, discografico, e infine combina il pasticcio delle foto. È inesperienza o dolo? Lui proverà a giustificarsi dicendo che “c’erano troppe pressioni quella notte” da parte dei dirigenti Rai e degli organizzatori che volevano cancellare al più presto la tragedia e riaccendere tutte le luci del Festival.

Molti anni dopo, però, nel 1981, il nome del commissario Molinari comparirà negli elenchi della Loggia P2…

E tutti gli errori di quella notte a Sanremo verranno letti sotto una luce nuova, compresa quella di un omicidio politico. E dell’eterno chissà-cosa-c’è-sotto, il leitmotiv di tanti presunti misteri italiani che si tramandano da una generazione all’altra, senza che si venga mai a capo di nulla. Sospeso dal servizio per lo scandalo della P2, Molinari sarà presto reintegrato: “Mi ero iscritto sotto copertura per indagare” dirà ai giudici, proprio la stessa motivazione adottata dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa. E concluderà la sua carriera da questore a Nuoro. Esaurite tutte le fortune, la storia di Arrigo Molinari, che fino al 2005 sembra una commedia in grigio, vira al nero: muore nella notte del 27 settembre, a settantatré anni, accoltellato forse per rapina, anche lui in una camera d’albergo. Un piccolo hotel di Andora che ha comprato anni prima con i due figli. E che per puro caso si chiama Ariston.

Chi era Luigi Tenco?

Uno di quei provinciali di talento scesi da Genova a Roma, passando per la casa discografica Ricordi di Milano, a cercare fortuna in quella giostra d’anni cinquanta e sessanta che era la musica leggera. Musicalmente viene dalla nidiata genovese, come Gian Franco Reverberi, Gino Paoli, Bruno Lauzi e naturalmente Fabrizio De André. Ha talento e carisma. Suona passabilmente il sax. Gli piace il rock, ma coltiva una sua passione per la canzone impegnata dei cugini francesi, Boris Vian, Édith Piaf, Yves Montand. Legge Spoon River. Ascolta Chet Baker. Si esibisce in discoteche a duemila lire a serata con tale Giorgio Gaberscik. Abita mansarde. Ammira Gino Paoli che veste esistenzialista, occhiali scuri e dolcevita neri. Per anni condividono sogni discografici, concerti e monolocali milanesi. Hanno entrambi vite sentimentali complicate. E quando Tenco si mette tra lui e Stefania Sandrelli, che alla fine gli casca tra le braccia, finiscono per litigare.

Un’infanzia felice ma un’adolescenza difficile…

Proprio così, viene da una famiglia benestante di campagna. Infanzia felice a Ricaldone, paese di collina e vigne, provincia di Alessandria. Ma a piegargli il carattere arriva in piena adolescenza la rivelazione che è figlio illegittimo, il frutto nascosto di una colpa, di un tradimento. Scriverà a un’amica: “Insomma ero un bâtard e portavo un nome che non mi apparteneva. Capisci vero? Era come se il mondo mi crollasse addosso”. Si salva da quel crollo lasciandoselo alle spalle, o almeno spera, per entrare in quello trasgressivo di una Genova notturna abitata da artisti, anarchici e solitari come lui che frequentano i pescatori di Boccadasse, i camalli comunisti del porto e tutti i fiori del male cantati dalla poesia francese: l’assenzio, le prostitute, la malavita, le principesse tristi. Lì trova la sua musica e la sua onda.

Tenta più volte la via universitaria ma senza successo, il suo vero amore, infatti, è la musica. Anche se non mancano altre debolezze pericolose…

Cambia tre volte università dopo un solo esame e canta nelle balere con tre pseudonimi diversi. Il primo è una prefigurazione e un destino: Gigi Mai. A Milano entra nella squadra di Nanni Ricordi, rampollo della dinastia milanese, discografico, pianista, pugile dilettante, anche lui un notturno, capace di dare aria alla musica italiana, scoprendo Mina, Sergio Endrigo e cento altri. In una manciata d’anni Tenco pubblica tre album e una dozzina di singoli. Il più famoso è Un giorno dopo l’altro che è diventata la sigla di apertura del Maigret televisivo, quello interpretato da Gino Cervi. Ama giocare a poker e fare le notti in bianco. Si definisce “uno sfasato”. Ma intanto colleziona armi, possiede un fucile e tre pistole. Gli piacciono i motoscafi e le auto: “Guadagno come un sergente, ma ho i vizi di un generale”. Ha avuto una Jaguar e si è appena comprato una Alfa Romeo Gt 1600 che guida come un pazzo. È spericolato e insieme insicuro. Beve troppo. Quando serve, all’alcol aggiunge il Pronox, uno psicofarmaco che toglie la paura. Di sé dice: “Sono fuori di me e sto in pensiero perché non mi vedo rientrare”.

E come spesso accade, anche per lui il successo, attenzione di discografici e pubblico, arriverà dopo la morte…

Infatti diventerà il beniamino dei discografici e del pubblico. Tutti i suoi dischi voleranno in classifica scalando per anni memoria e fatturati. Milioni di adolescenti troveranno in quel suo sguardo triste, in quel suo timbro caldo di voce, tutto quello che non avevano mai cercato prima dello sparo. E il Festival, accomodata la sua ombra dentro un premio, anzi dentro un club intitolato a suo nome, ricomincerà a macinare serate nel suo eterno presente: “Allora, Renata, chi è il primo cantante di questa sera?”.

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