Una mia cara amica che vive da 16 anni in America – a San Francisco – ha deciso di lasciare gli States e di tornare in Italia. “Ho bisogno – ha detto – delle mie radici”. Mia figlia che da trent’anni vive a Londra mi ha telefonato qualche giorno fa per dirmi che vuol ritornare a Roma. “Ho voglia – mi ha confessato – di ritrovare i vecchi amici d’infanzia, le vecchie strade, le vecchie atmosfere, forse anche i vecchi odori”. E allora sull’onda di questi ritorni riaffiorano nella mia mente alcuni incontri. Ero a Bonn quando Bonn era la capitale della Germania Ovest dunque prima del 1989, e un giorno il cameriere che mi serviva mi portò nel retrobottega e mi disse: “Voglio ritornare al mio paese, a Lucera, e finire lì i miei giorni. Che ne pensa, faccio bene?”. E un vecchio immigrato che avevo incontrato in Tasmania, oltre l’Australia, in un viaggio papale, rievocando l’Italia si mise a piangere. Singhiozzava: “Non ho i soldi per andare ogni anno a Sacile – disse – ma il mio cuore non è qui”.
Siamo diventati ormai cittadini del mondo. I ragazzi cominciano a viaggiare fin da piccoli, molti frequentano scuole internazionali in Gran Bretagna, in America, in Germania. Si mandano i figli all’estero perché abbiano un lavoro migliore, migliori guadagni, migliori occasioni di successo. Ma non riusciamo ancora a sentire il mondo come la nostra patria e anche fra cent’anni sarà magari il nostro piccolo villaggio a riempirci di nostalgia.
Non si tratta di un sentimentalismo ma di un cocente bisogno di ricollegarsi al passato, a quello che siamo stati da piccoli, alla nostra infanzia, al nostro quartiere, alla nostra casa, ai nostri paesaggi, alla nostra lingua, alle nostre tradizioni, forse anche ai nostri sogni. Ritrovare le radici di noi stessi che si perdono nel tempo e recano il segreto della nostra identità.
So che la parola “patria” è parola desueta e può richiamare alla memoria fasti guerreschi o sogni nazionali di gloria. Parliamo allora di paese. Si può anche emigrare, ma i vecchi emigranti hanno mantenuto, attraverso molte generazioni, usanze e tradizioni della loro terra, i cibi, le feste patronali, le processioni, le devozioni, perfino le immagini dei loro santi. Hanno perfino ricreato “altre Italie”, forse per sentirsi meno soli, per non perdere il contatto con le loro origini. E spesso si sono rinchiusi in quartieri per soli italiani per ingannare la solitudine e tenere viva quella corrente di affetti che li teneva aggrappati a un’infanzia lontana.
Però restare legati alle proprie radici non significa rinchiudersi nel cerchio magico della propria terra, non significa isolarsi ma mantenere intatto, dentro di noi, il filo segreto della nostra identità e della nostra memoria. Certo, sempre più andremo oltre i nostri confini, sempre più andremo dove c’è lavoro, l’Europa diventerà la nostra casa, ci mischieremo con altri usi, con altre culture, con altre lingue. E chi potrà proteggerci dal pericolo di uno sradicamento? Sarà la famiglia, qualunque sia questa famiglia, compatta o litigiosa, unita o separata. Sarà la famiglia il cordone ombelicale fra quello che siamo e quello che eravamo, fra noi e i nostri antenati, padri, nonni, bisnonni, e sarà questo il legame che mai si appannerà. La nostra generazione, intendo dire la generazione dei ventenni di oggi, tende a essere una generazione che ha mollato gli ormeggi. Morta la patria, morte le tradizioni, andiamo verso il sole dell’avvenire. Chissà, un giorno capiremo che si può essere i migliori ingegneri a Houston ma non abbandonare quel filo impercettibile che ci collega al mondo della nostra infanzia e sarà compito della famiglia far sì che la luce non si spenga.
”Un paese – scriveva Cesare Pavese – vuol dire non essere soli, sapere che nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei più resterà ad aspettarti”.