IL CATTOLICO LAICO

l’uomo artefice della ricostruzione postbellica
By carlo napoli
Pubblicato il 3 Dicembre 2018

Quando Alcide De Gasperi morì il feretro fu portato in treno a Roma e durante il percorso fu salutato a ogni stazione da una folla sterminata. Si scontrò con Pio XII che alle elezioni comunali voleva anche i missini nel fronte anticomunista…

Il 1948 fu un anno memorabile. Fu l’anno di De Gasperi. L’anno che segnò lo spartiacque fra libertà e dittatura, fra America e Unione Sovietica, fra benessere occidentale e miseria dell’Est. L’Italia era uscita dalla guerra distrutta e affamata, le industrie bombardate, le campagne abbandonate dai contadini, una povertà dilagante.

Quel 1948 fu un anno cruciale perché era in gioco il destino del paese. Il Partito comunista italiano, il più agguerrito di tutta l’Europa, nelle piazze inneggiava a Stalin e faceva balenare a milioni di italiani la felicità del paradiso sovietico. Per vincere quella sfida si mobilitò allora la Chiesa, le organizzazioni cattoliche, le parrocchie, le associazioni laiche, i ceti moderati che non amavano le rivoluzioni. Un 1948 in cui il paese si trovò al centro di un interesse internazionale. Erano entrate già nell’orbita sovietica la Romania e la Cecoslovacchia, Mosca stava organizzando all’Est i “colpi di stato” mascherati da rivolte popolari e l’America di Truman temeva che l’Italia potesse diventare un satellite dell’Urss.

In quelle elezioni, drammatiche e sofferte, la Democrazia Cristiana vinse. Vinse con una maggioranza del 48 per cento ancorando saldamente l’Italia all’Occidente.

L’uomo che portò la DC alla vittoria si chiamava Alcide De Gasperi. Già a vederlo non dava l’impressione di essere un capopopolo: volto pensoso, aspro di carattere, umile per temperamento, fervente cattolico ma non baciapile, dall’oratoria scarna ed essenziale. Per nascita e per cultura era più austriaco che italiano Era nato difatti nel Trentino che allora, nel 1881, faceva parte dell’impero asburgico. E a trent’anni era stato eletto al parlamento di Vienna come deputato della Val di Fiemme. Passato il Trentino all’Italia,  diventò a fine guerra capo del Partito popolare, ma nel 25 fu accusato di antifascismo e condannato a 10 anni di carcere.

Fu però rilasciato l’anno dopo, sembra per l’intervento della Santa Sede. Ma era senza lavoro e senza un soldo. Per mantenersi faceva traduzioni dal tedesco e qualche amico gli procurò un modestissimo impiego alla biblioteca vaticana. Ma dopo l’armistizio del 43 cominciò a tessere in clandestinità la tela del nuovo partito cattolico – la Democrazia Cristiana – che nasceva sulle ceneri del vecchio Partito Popolare.

I primi galloni di statista De Gasperi li guadagnò alla Conferenza di Pace di Parigi del 46 che avrebbe dovuto decidere il destino dell’Italia sconfitta. Era partito da Roma con poco seguito, con un abito blu che gli avevano prestato. In quella grande assembla, rappresentante di un’Italia vinta e stremata, attorniato dai vincitori che volevano punire il paese per la guerra e il fascismo, pronunciò  un discorso memorabile. “Prendendo la parola in questo consesso mondiale – disse con la sua voce secca ma intensa e con il coraggio di chi si sta giocando tutte le carte – sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”. Si fece un silenzio ostile e nessuno applaudì. Solo il delegato americano si alzò e andò a stringergli la mano. Era il segno tangibile che per l’Italia si voltava pagina, che veniva archiviato il passato. Cominciava lentamente la ricostruzione, e l’anno dopo De Gasperi ottenne a Washington un prestito di 100 milioni di dollari.

Ma la sua visione politica andava oltre i confini italiani e in questo la memoria di un impero sovranazionale come quello asburgico al quale aveva appartenuto lo aiutò. Immaginava un‘Europa senza più guerre, unita da vincoli comuni. Memore dei conflitti che avevano funestate il continente per ottant’anni, sognò un’Europa unita ed ebbe come compagni in questo grande disegno il canceliere tedesco Adenauer, e poi i francesi Jean Monnet e Schumacher, il belga Spaak, l’italiano Spinelli. Un’Europa che cominciò proprio allora la sua lunga strada. Il suo cattolicesimo non fu italiano. Abituato all’aria asburgica dove vigeva la netta separazione fra Stato e Chiesa, si scontrò con Pio XII che alle elezioni comunali voleva anche i missini nel fronte anticomunista. De Gasperi non si piegò. Non ascoltò né la richiesta del papa né quella di padre Lombardi né quella dell’Azione Catto­­lica, convinto dell’autonomia della politica. La Democrazia Cristiana rischiò lo scontro col Vaticano ma De Gasperi fu fermissimo nel respingere ogni commistione fra fede e militanza politica. Per questo papa Pacelli non lo amò e quando lo statista fece trent’anni di matrimonio chiese udienza a Pio XII che la rifiutò. Fedele al principio della laicità dello stato e allergico al clericalismo, fece dire all’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede che come cattolico chinava la testa, ma come presidente del Consiglio chiedeva spiegazioni e protestava. Disse agli amici: “Proprio a me, povero cattolico della Valsugana, è toccato dire no al papa”.

Intanto con gli anni cinquanta cominciava la ricostruzione del paese sotto la guida di Alcide De Gasperi: il piano Marshall, i prestiti d’oltreoceano, le industrie che si rimettevano in moto, il nuovo sistema fiscale di Vanoni, un grande piano per l’edilizia popolare. La vita privata di De Gasperi fu senza scandali e senza macchia, condusse vita modestissima, famiglia esemplare, nessuno dei parenti ebbe incarichi di prestigio, visse del solo stipendio in un’Italia che già cominciava a sentire odore di mazzette. Quando morì in Valsugana, il suo feretro fu portato in treno a Roma e durante il percorso fu salutato a ogni stazione da una folla sterminata che fece ala al suo passaggio.

Fu proclamato servo di Dio ed è aperta la causa di beatificazione per il presidente di un’Italia – seria e coraggiosa – che non c’è più.

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