I RAGAZZI DEL CELLULARE
Ho sbagliato. A quei pochi lettori che mi seguono devo dire onestamente: ho sbagliato. Ho sbagliato nel demonizzare quell’aggeggio che tutti hanno e che va sotto il nome di telefonino o cellulare. Avevo scritto in non so più quale articolo che siamo diventati schiavi di questo strumento, che in ogni stazione, in ogni studio medico, in ogni fermata di autobus, in ogni parrucchiere o manicure la gente non parla più ma compulsa i cosiddetti “social” e si bea di quelle notizie che non sempre sono notizie ma spesso pubblicità mascherata, dalle frizioni per la calvizie allo stura lavandino, dalle pizze napoletane alla ricetta per l’acquacotta.
Chi mi ha fatto cambiare opinione – almeno in buona parte – è stato mio nipote e due suoi amici che sono diventati per me una specie di cartina di tornasole per capire dove vanno gli adolescenti.
Ecco i fatti. Eravamo in macchina ed era già cominciata l’invasione dell’Ucraina. Stavo spiegando come si era dissolta l’Unione Sovietica quando qualcuno mi ha interrotto per correggere una mia svista, e mi ha elencato alcune repubbliche che si erano rese indipendenti, come la Georgia, il Turkmenistan o il Tagikhistan o come appunto l’Ucraina. E mi sono finto digiuno di politica per vedere fino a che punto questi ragazzi mi avrebbero corretto. Mi hanno corretto. E quando ho chiesto dove avevano preso tutte queste notizie (certamente dalla scuola, ho pensato) mi hanno bloccato: “No, dal telefonino”, hanno sottolineato. Usato durante il giorno, anche in classe fra una lezione e l’altra. Hanno seguito giorno dopo giorno i dibattiti e le interviste, i bombardamenti e l’avanzata dei carri armati, il pianto dei fuggiaschi e l’estremo appello di Zelensky e allora mentre li ascoltavo la memoria mi ha riportato a tempi lontani. A quando i sovietici entrarono a Budapest nel 56 o a Praga nel 68 e non mi sembra di essere stato allora così colto storicamente. Avevamo la radio certamente, nel 56 la televisione non era ancora nata e non c’erano le maratone di Mentana. E noi non eravamo così eruditi da muoverci con disinvoltura in una cultura geopolitica.
Non canto le lodi di questo strumento ma certamente questo essere connessi immediatamente a tante fonti d’ informazione, ai commenti dei “social” ha dato ai ragazzi (a tutti noi) un bagaglio di informazioni che ci hanno messo al centro della scena. Abbiamo visto crollare in diretta i palazzi sventrati dalle bombe, i vagoni dei treni stipati di gente che fuggiva per ignota destinazione, fra lacrime e disperazione. E tutti noi, fra orrore e pietà, eravamo partecipi di un’immensa tragedia. Potrei citare tanti altri avvenimenti che hanno fatto di noi dei testimoni, e forse quel piccolo strumento nelle nostre tasche, consultato anche in ufficio, sul lavoro, sul tram, sulla corriera, in attesa di un autobus ha contribuito a trasportarci sul palcoscenico della storia.
Chi scrive qualche volta si abbandona al “tempo che fu” come se il passato fosse carico di qualcosa che avevamo e si è persa. Un sentimento, una nostalgia, un rimpianto, forse il fascino malinconico del ricordo. Ma poi a mente lucida si vede la strada che abbiamo fatto, e non c’è progresso che non porti con sé anche errori e sbandamenti.
Certo, qualunque sia il messaggio di cultura e d’informazione, questo non esime i genitori da un occhiuto controllo per evitare che certe immagini e racconti turbino i ragazzi. C’è un passivo ma non dobbiamo nemmeno dimenticare quello che abbiamo conquistato rispetto alle passate generazioni. C’è la bomba atomica ma c’è anche l’energia nucleare. Diceva con un fondo di verità e con un pizzico di cinismo Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del Futurismo: “Abbiate fiducia nel progresso che ha sempre ragione anche quando ha torto.”