CRISTIANI E GIOVANI LE VITTIME PRIVILEGIATE DELLA VIOLENZA

Le “cifre del dolore” nel 2014
By Angelo Paoluzi
Pubblicato il 1 Febbraio 2015

L’infanzia, ancora una volta, paga il prezzo più alto. Si pensi che 230 milioni di bambini sono coinvolti nelle guerre in corso, mentre alcune diecine di migliaia di essi partecipano direttamente a questo o a quel conflitto, armi in pugno Troppe lacrime nel mondo»: Papa Francesco ha sintetizzato così lo stato nel quale oggi si trova il pianeta, percorso da 27 conflitti dichiarati. Le cifre del dolore del 2014  cominciano con un inconcepibile crimine contro l’infanzia: in alcune zone del mondo si impediscono le vaccinazioni antipoliomielitiche;  attaccati e distrutti i dispensari, assassinati gli operatori sanitari. Il morbo poteva essere eliminato entro il 2020, al costo di un miliardo di dollari l’anno, ma non sarà così. Un cieco terrorismo ostacola gli interventi, in  modo particolare in Pakistan al confine con l’Afghanistan (circa trecento assalti contro le strutture mediche), e nella Nigeria del nord.

 

L’infanzia, ancora una volta, paga il prezzo più alto. Si pensi che 230 milioni di bambini sono coinvolti  nelle guerre in corso, mentre alcune diecine di migliaia di essi partecipano direttamente a questo o a quel conflitto, armi in pugno. Ma sono colpiti anche in maniera indiretta, là dove è loro impedito il diritto all’istruzione. Come in  Nigeria in cui si assaltano e si demoliscono le scuole, si uccidono e si rapiscono insegnanti e alunni; in Messico dove  i narcotrafficanti sabotano ogni tipo di rapporto educativo; nelle zone controllate dai fondamentalisti islamici in Afghanistan e in Pakistan e dai miliziani del califfato in Iraq e Siria.

Ragazzi e ragazze sono un buon terzo dei 36 milioni di schiavi di cui si denuncia l’esistenza nel 2014 (in aumento rispetto al passato). Senza famiglia, vittime del traffico sessuale, del commercio degli organi, della prostituzione, forzati al lavoro in condizioni inumane. 152 i Paesi coinvolti, compresi quelli del “civile” Occidente, in un commercio la cui cifra d’affari è di 32 miliardi di dollari l’anno, terza voce dell’ “economia criminale” dopo il traffico delle armi e la droga. I leader religiosi del mondo hanno recentemente lanciato un appello comune contro la tratta e la chiesa celebrerà l’8 febbraio la Giornata internazionale di preghiera e riflessione sul triste fenomeno.

E parliamo  della fame, con 38 paesi, 28 dei quali in Africa, a rischio. Qui si è ben lontani dal raggiungere gli obiettivi previsti dalle Nazioni Unite: secondo la Fao, più di ottocento milioni di persone, un abitante del mondo su sei, a fronte ogni anno di uno spreco di alimenti per oltre duemila miliardi di dollari, mancano di un sufficiente nutrimento, nonostante due miliardi e mezzo di tonnellate di cereali prodotti che permetterebbero cibo per tutti. La globalizzazione, partita venti anni fa, ha favorito la speculazione finanziaria senza corrispondenti successi nella tutela dei diritti umani e delle esigenze elementari al vitto, all’acqua, alle cure mediche di centinaia di milioni di persone. Senza contare l’irruzione in Africa dell’epidemia di ebola, che ha messo in ginocchio almeno tre nazioni, la Sierra Leone, la Guinea equato-riale e la Liberia, causando circa ottomila morti e gettando nel panico l’opinione pubblica mondiale.

Le cifre del dolore non possono eludere altri crimini da colletti bianchi. Le ultime cifre disponibili denunciano, per il 2102, trasferimenti illeciti dai paesi poveri o emergenti per circa mille miliardi di dollari (6600 miliardi di dollari nel periodo 2006-2012): frutto di  diffusa corruzione, di profitti della criminalità organizzata, di evasione fiscale, in particolare della cosiddetta “ottimizzazione” praticata dalle multinazionali che scelgono, attraverso operazioni poco limpide, di pagare le tasse là dove il costo è minore.

Le cronache quotidiane sono piene del terrorismo spietato in provenienza, ancora una volta, dalla Nigeria, dove nel 2014 guerriglieri di ispirazione islamista hanno intensificato i loro attacchi a comunità religiose, in particolare cristiane ma anche musulmane moderate, a scuole e forze armate. Tremila le vittime l’anno scorso, tredicimila dal 2009; un milione e mezzo i profughi. Altri teatri di morte, con centinaia di assassinati, la Somalia, il Kenya, il Centrafrica, la Libia, in cui si susseguono le scorrerie, spesso di inaudita ferocia, dei fondamentalisti; e il Messico, dove l’anno scorso il “cartello della droga” ha sfidato il potere centrale con stragi collettive di militari, studenti e personale scolastico, ed esecuzioni pubbliche di giornalisti che denunciavano le pratiche criminali.

Il già confuso quadro del Medioriente è stato ulteriormente complicato dall’offensiva del cosiddetto califfato, che si è sovrapposto alla guerra civile in corso in Siria e al terrorismo in Iraq. L’imposizione della Jihad – la stretta legge coranica – ha portato a una fanatica persecuzione contro i cristiani e le altre minoranze confessionali (anche islamiche), attuata attraverso fucilazioni e decapitazioni, distruzioni di chiese, rapimenti di donne costrette a sposare i combattenti dell’Isis (e uccise, come è accaduto a centocinquanta di loro, in caso di rifiuto), sequestro di beni, indottrinamento forzato di bambini sottratti ai genitori.

È ancora difficile il calcolo delle vittime del califfato: alcune decine di migliaia di morti nel giro di pochi mesi, con il contorno di centinaia di migliaia di espulsi e profughi. Fra essi i cristiani hanno un posto privilegiato: nel mondo il numero dei perseguitati nelle varie forme raggiunge i centomila, non soltanto da parte musulmana ma, di recente, anche da rafforzate discriminazioni nelle società “comuniste” e nelle comunità induiste. Un elemento di consolazione in questo quadro obiettivamente deprimente lo fornisce lo slancio collaborativo fra confessioni e religioni, i cui esponenti in più di un caso si sono ritrovati nella difesa delle ragioni della pace. Ciò che può essere un’apertura di speranza in un 2015 migliore.

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