Una sera come le altre. Si parla di femminicidi, di questa follia che dilaga e che accomuna Italia e Francia, Gran Bretagna e Germania quasi tutte con le stesse percentuali. Di chi la colpa? Di una morale dissestata, del tramonto del Cristianesimo in Europa, della famiglia assente, dei social incontrollabili? E il discorso scivola sulla scuola. Può ancora svolgere un ruolo in un’epoca così convulsa? Ha ancora un briciolo di credibilità? E la padrona di casa che è una vecchia insegnante d’italiano, ormai in pensione, si allontana un attimo e mi porge una lettera. “È di un mio alunno di tanti anni fa, allora in crisi – dice – un po’ di droga, un po’ di solitudine, voti pessimi, indifferenza familiare e una disperazione che produce altra disperazione”.
Leggo: “Professoressa carissima, in tutti questi anni non ho mai mancato di mandarle gli auguri di Natale, ma oggi, nel giorno che compio cinquant’anni, sento di doverle dire qualcosa che non le ho mai detto, forse per vergogna: lei mi ha salvato, mi ha tratto dal baratro in cui stavo precipitando e mi ha ridato la vita, solamente lei col suo affetto, la sua comprensione, la sua infinita pazienza. Ha creduto in me anche quando io mi pensavo perduto, ha impedito che scivolassi sempre più giù e mi ha riportato alla luce, e lo ha fatto senza grandi gesti, senza eroismi, solamente col suo affetto e spesso, molto spesso, con la sua fermezza. Perché io recalcitravo, non pensavo che sarei mai riuscito a risalire la china, e invece lei mi faceva credere che tutto era possibile per me, mi sarebbe bastata solo un po’ di buona volontà. E vedendo che lei credeva in me, non volevo deluderla e qualche volta ho finto di essere uscito dal tunnel solo per farle un piacere.
Mi vergognavo di venire a scuola dove gli insegnanti mi avrebbero guardato con severità, avrei indovinato i loro pensieri, il loro giudizio. E non volevo tornare più in classe perché nella mia carriera scolastica avevo collezionato solo assenze, insufficienze, sospensioni, lettere del preside ai miei genitori. Sentivo attorno a me solo critiche, ammonimenti, sfiducia, disprezzo. Ero nel buio più completo e lei lo ha capito. Mi disse: ricomincia a venire scuola. Da domani ti vengo a prendere alla fermata della metropolitana. Un passo alla volta, ce la faremo a vincere. Qualche volta non sono venuto, per paura, ma lei con la stessa cordialità mi diceva di non preoccuparmi, era solo questione di tempo. Ho saputo dopo che lei aveva chiesto a tutti gli studenti della classe, uno per uno, se potevano prendere un impegno: quello di essere affettuosi con me, di aiutarmi, di non farmi sentire un fallito. Lentamente, molto lentamente ho ripreso a studiare, a essere disciplinato, ho smesso di drogarmi ma soprattutto – questo è stato il miracolo – ho ricominciato ad avere fiducia in me stesso. Oggi, nei miei cinquant’anni, sento che debbo tutto a lei, ha saputo ridarmi coraggio ed è cominciata una mia a rinascita. Tutta la mia esistenza è cambiata e se io sono diventato un bravo tecnico, un padre di famiglia, un bravo marito lo debbo a lei che ha saputo resuscitare il mio vero ‘io’, quello che interiormente ero, qualcosa che dormiva dentro di me e che lei ha saputo ridestare. Non ho più parole, ma solo lacrime di gratitudine”.
Ripenso alle parole di don Milani: “Se si perdono i ragazzi più difficili la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.
P.S. Se qualche lettore volesse incontrare questa professoressa, mi scriva in privato. (c/o L’Eco di San Gabriele)