IN CRISI IN EUROPA LA LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE

che cosa significa il “fallimento” di Schengen
By Angelo Paoluzi
Pubblicato il 31 Marzo 2016

Il sistema non sta reggendo perché impreparato di fronte all’ondata di rifugiati e perché sulla solidarietà hanno prevalso gli egoismi locali e il rifiuto politico da parte di formazioni nazionaliste al governo (come in Ungheria e Polonia)

La fine di Schengen. Il fallimento di Schengen. La chiusura dello spazio di Schengen. Le cronache degli ultimi mesi si riferiscono agli accordi sulla libera circolazione delle persone firmati nel 1985 in quella località lussemburghese da Francia, Germania e paesi del Benelux. Si aggiunsero, a partire dal 1990 e sino al 1996, altri otto stati (fra i quali l’Italia), arrivando poi complessivamente a 26 membri, compresi alcuni non facenti parte dell’Unione Europea. Era un importante risultato politico: allargava alle persone il puro dato materiale della già ottenuta circolazione di merci e capitali e offriva all’Europa un ulteriore significato unitario.

Questo significato è minacciato però dai più recenti avvenimenti, in particolare dal flusso migratorio proveniente da una serie di paesi, del Medio Oriente e dell’Africa, sconvolti da sanguinose guerre o da miseria endemica. Sono spinte verso l’Europa centinaia di migliaia di persone che fuggono la violenza bellica (in Siria, Irak, Afghanistan), feroci dittature (in Etiopia ed Eritrea), la povertà (nell’Africa settentrionale e subasahariana), per trovare migliori condizioni di vita.

Il sistema Schengen non sta reggendo a questo impatto, in primo luogo perché impreparato di fronte all’ondata di rifugiati, e poi perché sulla solidarietà hanno prevalso gli egoismi locali e il rifiuto politico da parte di formazioni nazionaliste al governo (come in Ungheria e Polonia). Tutto ciò si è tradotto in chiusure, erezioni di muri e reticolati, rifiuto di applicare quelle parti delle intese di Schengen considerate negative per la propria economia e tali da imporre sacrifici alle peraltro ricche popolazioni native, anche se – considerandoli obiettivamente – essi potessero essere considerati minimi.

Si parla di “crisi delle frontiere”, perché le barriere costruite o in corso di edificazione violano gli impegni presi a livello di Unione e sfidano la stessa autorità europea che li vorrebbe vedere realizzati. Come nel caso della redistribuzione dei migranti, a suo tempo decisa in modo unitario (l’Italia è fra i paesi interessati alla sua attuazione), e alla quale oggi si oppongono l’Ungheria, l’Austria, la Slovacchia e la Repubblica Ceka; e ben presto, c’è purtroppo da temerlo, altri stati.

Ma le difficoltà politiche e i rigurgiti nazionalisti non sono i soli dati negativi. Perché si sono fatti i conti e bilanci che dovrebbero indurre a riflettere i troppo frettolosi fautori delle chiusure. Le valutazioni non sono concordi ma, dal più al meno, parlano di perdite che vanno dai 1400 miliardi di euro a “soltanto” alcune centinaia di miliardi per l’economia europea, minacciando una regressione del suo ritmo di sviluppo, con le ulteriori conseguenze di confini sbarrati difficilmente ipotizzabili. Perché non ci si può illudere che la mancata libera circolazione delle persone (vale a dire il contenimento nazionale dei migranti) non faccia correre pericoli all’insieme del mercato, e quindi non intacchi i flussi finanziari.

Il turismo sarà messo in difficoltà dalla necessaria lentezza dei controlli alle frontiere. I trasporti, anch’essi sottoposti a ritardi per la stessa ragione, faranno salire i prezzi delle merci, specialmente quelle deperibili. I bilanci dei singoli paesi saranno gravati dall’aumento di spese per il personale di dogana. Si renderanno più difficili gli scambi culturali, a partire da quelli degli studenti oggi assicurati da vari progetti, in primo luogo Erasmus. E lo stesso mercato unico pagherà a breve termine una politica egoista sul piano umano. Il totale raggiunge le centinaia di miliardi di euro.

Ai costi di cui è responsabile in pochi mesi l’attuazione delle barriere, si aggiungono quelli di tutte le operazioni di repressione – perché così ormai deve essere chiamata – di contenimento, di respingimento e di restituzione dei profughi ai loro paesi. Come se non bastasse il tragico elenco quotidiano di affogati e di morti per ogni causa, insieme con la dispersione di migliaia di clandestini destinati a diventare carne da cannone della criminalità organizzata.

Invano i massimi dirigenti del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, e della Banca Europea, Mario Draghi, hanno insistito, cifre alla mano, sull’impatto positivo delle politiche di accoglienza. A sessanta anni (nel 2017) dalla firma dei Trattati di Roma che aprirono la strada a un’èra senza guerre e a uno sviluppo economico di cui non si aveva memoria, restano inascoltate le denunce di una regressione non soltanto materiale ma anche spirituale, intellettuale e culturale. A partire dall’ammonimento che papa Francesco a suo tempo aveva lanciato nel discorso pronunciato nel settembre 2014 a Strasburgo dinanzi al parlamento europeo. Non è forse ancora tutto perduto ma si ha l’impressione che “manchino pochi minuti a mezzanotte”.

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