FRECCIAROSSA ROMA-MILANO

By carlo napoli
Pubblicato il 12 Luglio 2020

Teresa piange. Dolcemente, sommessamente, ma piange. Ha quasi sessant’anni, magrissima, uno scricciolo di donna tutta nervi, coi capelli tinti che lasciano vedere una ciocca di bianco, però un viso luminoso turbato solo dal luccichio delle lacrime. L’ho conosciuta sul treno Roma-Milano. Abbiamo condiviso tre ore di Freccia-rossa con due sedili posti di fronte. Come capita in tutti i viaggi in cui si è obbligati dalla vicinanza a scambiare quattro chiacchiere, anche noi abbiamo cominciato in sordina ( “va per lavoro?”, “che nebbia oggi sulla campagna”, “questo treno non è più quello d’un tempo”) per finire col problema dei figli. Teresa mi ha parlato dei suoi ma c’era nel suo racconto un velo di amarezza. Di figli ne ha due, uno di 23 anni che si sta per laureare e di cui è fiera, e un altro di 26 che non solo non ha preso uno straccio di diploma ma vive di lavoretti occasionali, senza sguardo al futuro. Questa è la pena di Teresa. A nulla sono valsi i rimproveri, le punizioni, la confidenza, gli incoraggiamenti. Non hanno sortito effetto e sono scivolati via tra indifferenza e pigrizia. E dolorosamente dice: “Cosa abbiamo sbagliato?”.

È una frase che ho sentito spesso da qualche genitore, tutti che si accusano di colpe inesistenti mentre in testa si affacciano dubbi che diventano anche tormenti: se allora avessi detto, se allora avessi fatto, se avessi taciuto, se avessi usato le maniere forti, se mi fossi comportato diversamente coi figli, se fossi stato meno duro, se fossi stato più tenero…

Non esistono – dico a Teresa – scuole per genitori, non esistono università dove si impara come educare i figli, siamo tutti autodidatti, andiamo avanti con quel poco di esperienza che abbiamo o imitando i nostri padri e le nostre madri o facendo esattamente il contrario di quello che facevano loro. Non ci sono altre strade e non esistono garanzie di successo. Come da genitori bellissimi possono uscire figli bruttissimi cosi da famiglie integerrime può nascere un figlio bacato. Ho conosciuto famiglie che dicevano le preghiere a pranzo e cena e che a maggio dicevano tutte le sere il rosario coi figli, e si sono ritrovati con una figlia incinta fuori del matrimonio.

Lo dico a Teresa che mi guarda incredula e si ribella alla mia diagnosi. Vuole solo sentirsi colpevole, convinta che sia stato commesso un qualche errore di manovra nel corso degli anni, e vorrebbe rintracciare quel momento o quei giorni o quei mesi in cui si è perso il controllo della situazione. Forse un errore di psicologia, forse non aver compreso i segnali di pericolo. E gli interrogativi laceranti che turbano il sonno, se fossi stata una madre più dura, se fossi stata capace di entrare nel segreto dei figli, capirli meglio, percepire le inquietudini dell’adolescenza, essere in sintonia coi loro pensieri. Ma questi “se” sono le pietre di cui è lastricata la vita. Comunque si giri il problema, non ci sono soluzioni facili. E bisogna onestamente riconoscere che si può anche fallire come educatori, senza colpa.

Penso, e lo dico a Teresa, che il mondo dei figli è come una pozza d’acqua melmosa di cui non vedi il fondo. Ognuno di noi porta dentro di sé i germi di lontane eredità genetiche, siamo un impasto di sogni, di amicizie, di desideri, di affetti, di amori che formano il sostrato della nostra coscienza.

Forse il destino di molti di noi è di essere solo dei seminatori che non sanno se e quando il grano germoglierà. L’uomo resta un mistero, nel bene e nel male. Per quanto amoroso sia stato un padre, sopravvive un margine di imprevedibilità. Come diceva Alexis Carrell, il medico che si convertì a Lourdes, l’uomo è “uno sconosciuto”. Lo dico frettolosamente a Teresa, a mo’ di commiato, mentre il treno frena alla stazione di Milano.

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