Mentre andiamo in stampa il governo Draghi sta affrontando il voto di fiducia in Parla-mento, che si prevede largamente positivo. Non è eccessivo dire che il successo operativo del governo Draghi potrebbe essere l’ultima possibilità di evitare una prova elettorale politica dominata dalla passionalità dei partiti e degli elettori, anziché dalla loro razionale riflessione sui fatti e sulle situazioni. La cui mancanza è spesso costata molto in tutto il mondo ai regimi democratici. La fiducia in Draghi è fondata innanzitutto perché la sua personalità e le sue esperienze di governatore della Banca d’Italia e della Banca Centrale Europea sono tra i fatti per quali il presidente Mattarella ha scelto il migliore (tra i non molti) per essere a capo del nuovo governo. Poi perché in Europa e negli altri grandi paesi avanzati Draghi è considerato un profondo conoscitore dei tratti essenziali e dei problemi del nostro tempo. E in particolare di quelli imposti nel mondo dal sempre più stretto rapporto tra strategie finanziarie e strategie di ricerca, produzione e commercio in aree sempre più vaste politico-economiche. Fatto questo che evidenzia inoltre lo stacco della esperienza e della personalità di Draghi rispetto a quelle degli esponenti politici e di governo espressi dalle elezioni del 2018.
Draghi, dunque, sarà impegnato alla soluzione graduale dei problemi vitali del Paese (debito pubblico, fisco, occupazione, eccesso di burocrazia, giustizia, istruzione, ambiente) nel pieno della pandemia. Problemi ai quali – in un governo con più esponenti politici, 15, di quanti si pensasse – dovranno fare fronte soprattutto esperti di valore, 8, scelti da Draghi e da Mattarella per essere a capo dei dicasteri di maggiore peso: Vittorio Colao, innovazione tecnologica; Marta Cartabia, Giustizia; Daniele Franco, Economia; Roberto Cingolani, Transi-zione Ecologica; Enrico Giovannini, Infrastrutture e Trasporti; Patrizio Bianchi, Istruzione; Cristina Messa, Università e Ricerca.
Oltre al numero, alla qualità e alla correlazione dei problemi ricordati, Draghi dovrà tenere conto anche di un altro fatto: Scelto da Mattarella fuori dalla logica dei partiti, ha però bisogno del loro consenso parlamentare. Appare convinto quello di FI e delle formazioni minori centriste e di sinistra europeiste. Misto di convinzione e calcolo quello del Pd e della Lega. Calcolato e diffidente quello del M5S, anche in parti di quel 60 per cento che ha espresso consenso per Draghi nel voto sulla piattaforma Rousseau di Casaleggio, rispetto al 40 per cento che ha votato contro la partecipazione al governo. Situazione sulla quale è probabile che peserà, sin dalle elezioni regionali e amministrative di primavera, la scissione (con qualche riflesso anche nei gruppi parlamentari) operata da Di Battista. Nel Pd, la superficie in apparenza abbastanza calma nasconde invece molte tensioni. Cresce, infatti, la polemica sulla mancata valorizzazione delle donne nella delegazione al governo e negli indirizzi di fondo del partito. Franceschini non ha gradito la perdita del ministero del Turismo, e sembra con la crisi aver perso almeno parte della sua tradizionale influenza sul partito. Aumenta di tono, inoltre, la richiesta delle diverse correnti di un congresso a breve al fine di meglio qualificare la posizione del Pd nella nuova realtà politico-istituzionale e nel rapporto col M5S, anche in vista delle elezioni di primavera. Nella Lega torna a farsi sentire la dialettica tra gli interessi dei dirigenti politici delle regioni del Nord e dei loro ceti imprenditoriali, rispetto alle visioni politico-programmatiche “nazionaliste” di Salvini, in particolare su temi quali le quote di risorse finanziarie da destinare alle diverse aree del Paese.
Nonostante le dichiarazioni contrarie di tutte le parti interessate, in fine, sono più che probabili contraccolpi negativi (in qualche parte anche elettorali in primavera) tra la vigorosa, e abile, opposizione al governo di Giorgia Meloni, e le posizioni marcatamente filo governative di Berlusconi, e quelle, come detto più articolate, della Lega.