Non so quale sarà il destino politico del giovane premier francese Attal però ricordo di lui alcune bellissime parole quando divenne ministro dell’Istruzione e che cerco di riassumere brevemente ma non testualmente. “Deve finire – disse – l’epoca del permissivismo, bisogna tornare alla severità nella scuola, avere il coraggio di lodare virtù antiche, il sacrificio, il coraggio, la lotta, la competizione per vincere”. Queste parole le avevo annotate quando Attal le pronunciò ma mi sono tornate alla memoria dopo una serie di delitti, di stupri, di violenze. E mi è tornato alla memoria anche un raccapricciante fatto di cronaca avvenuto a inizio estate a Pescara: l’accoltellamento di un ragazzo per 200 euro di droga non pagata, una furia disumana di odio, un accanimento perverso che testimonia che nella nostra società “opulenta” si annida il virus di una voluttà sadica e sanguinaria come ne fanno fede anche i quasi quotidiani femminicidi. Non passa giorno senza che si parli di uccisioni per motivi banali, di vendette trucide consumate da adolescenti, di coltellate senza senso magari per filmare sul cellulare l’ultimo respiro di un moribondo.
Quello che stupisce è che oggi non ci sia più differenza da quella che si chiamava “buona famiglia” e chi ha vissuto allo stato brado. I padri di molti ragazzi omicidi sono professionisti, medici, ufficiali di polizia, e il dato si presta a qualche considerazione.
Primo: questi padri e madri hanno abdicato completamente al loro ruolo di educatori, o per incapacità o per mancanza di tempo o per superficialità o per debolezza. Secondo: imporre la disciplina ai propri figli richiede coraggio, richiede saper andare controcorrente, sfidare usi e costumi consolidati in un tempo dominato dai social.
Ricordo, moltissimi anni fa quando non c’erano ancora i cellulari, l’ossessione dei miei figli per la televisione. Avevano, credo, nove o dieci anni e si mettevano a inizio pomeriggio a guardare e poi passavano da canale a canale, e a nulla servivano i nostri avvertimenti e le punizioni. E dopo tanti fallimenti, presi – anzi prendemmo perché mia moglie approvò – la decisione drastica: far sparire la televisione. Di notte, quando i ragazzi dormivano, la portai in cantina e grande fu la sorpresa quando se ne accorsero. Ignorammo strepiti e lamentele ma restammo fermi, inamovibili, insensibili a pianti e disperazione.
Dico questo non per ergermi a educatore (che vorrei essere e non sono) ma per sottolineare che la strada della fermezza costa sacrificio e ci vuole coraggio per andare controcorrente. Mi rendo conto che mai come oggi educare è diventata una fatica immensa, si costruisce o si cerca di costruire ma appena i ragazzi escono da casa sono preda della demolizione di ogni buon principio. Il problema non è più “saper educare” ma “saper affrontare” le lotte in famiglia. Rassegnarsi? Arrendersi? Rinunciare? Ecco perché mi sono tornate alla memoria le parole di Attal che divenendo ministro dell’Istruzione non ha cercato l’applauso della folla e una facile pubblicità, anzi ha detto che la strada battuta era sbagliata e che bisognava fare marcia indietro. Io non so quanti genitori oggi siano disposti a difendere un principio, ma credo che sia l’unica strada per bloccare la frana. E dovrebbe essere la scuola – vista l’assenza dei genitori – a tracciare la rotta. Bisogna capovolgere i valori, le usanze, le dittature della moda, la paura di sembrare retrogradi, l’accusa di essere antiquati. Rendere consapevole il ragazzo che nella vita non c’è niente di regalato, che ogni cosa va sudata, via i pietismi e rivalutare il sacrificio senza il quale ogni tentativo non può che abortire. Ma senza un’inversione di marcia non ci potrà essere che una resa senza condizioni. L’onda della rinuncia a lottare è così gigantesca che l’unico approdo possibile appare oggi – purtroppo – la sconfitta.