Il comparto alimentare ha registrato un +9,6%, i servizi di telecomunicazione + 8% e + 4% quello dei prodotti farmaceutici e terapeutici. Buio pesto, invece, per quei settori che non recupereranno più ciò che non hanno prodotto nel periodo di ultraquarantena: viaggi per turismo o affari, spettacolo, attività ricreative, cura della persona, automobili, abbigliamento…
Sarà un’estate amara. La mancanza di un vaccino contro il Covid-19 ci impone di essere prudenti e non ci consentirà quella spensieratezza tipica del periodo. A dire il vero, non consentirà tante altre cose, a cominciare dalla qualità della vacanza e, purtroppo per molti, neppure di andare in vacanza, dato che da mesi c’è chi ha perso il lavoro o è in cassa integrazione senza una data di conclusione. Mai nella storia recente nostra e in quella degli altri paesi ci si è trovati ad affrontare una crisi sanitaria, sociale ed economica di queste proporzioni. La nostra economia sta subendo un prolungato shock dal quale si riavrà non sappiamo tra quanti anni. Le prospettive economiche, in questa fase di emergenza sanitaria, sono gravemente compromesse. Secondo il Fondo Monetario internazionale, il Prodotto interno lordo (Pil) 2020 dell’Italia crollerà del 9,1 per cento. Si tratta del peggior decremento dalla Seconda guerra mondiale. Durante il periodo che preferiamo definire di confinamento (lockdown è un termine usato per i detenuti delle carceri statunitensi…), solo una parte delle attività ha potuto proseguire, seppure a scartamento ridotto. Si è fermato, secondo calcoli dell’Istat, il 49 per cento delle imprese presenti in Italia (2,2 milioni, che danno lavoro a 7,4 milioni di persone, di cui 4,9 milioni di dipendenti). Tra queste, quelle dei settori della ristorazione, della cura della persona, dello spettacolo. A questi si unisce il turismo, che da solo vale circa il 14 per cento del Pil. Siamo tra i maggiori paesi al mondo per numero di contagi e vittime di Coronavirus e all’estero sconsigliano ai loro cittadini di venire in Italia. Per questo settore era previsto un aumento del 3-3,5% delle presenze, con l’aggiunta di un +6% nella spesa internazionale, invece – secondo Federalberghi – la perdita oscillerà tra il 50 e il 70 per cento.
Una buona metà (51%) ha comunque lavorato. Oltre al personale sanitario (quasi 2 milioni), e agli addetti ai servizi alle famiglie (733 mila), l’elenco di chi ha potuto continuare l’attività è abbastanza nutrito: addetti a logistica e trasporti, giornalisti e comunicatori, bancari, assicuratori, pubblica amministrazione, insegnanti, quasi tutti gli addetti all’agricoltura (il 94%, 854 mila lavoratori), così come, anche se a scartamento ridotto, le attività immobiliari, i professionisti, gli addetti al noleggio, le agenzie di viaggio, i servizi di supporto alle imprese. Poi ci sono le attività legate ai servizi collettivi e personali (in totale sono rimasti al lavoro 281 mila addetti). Nel settore alberghi e ristorazione è rimato attivo il 20 per cento (318 mila), cioè solo le attività che hanno svolto consegne a domicilio. Il lavoro da casa ha aiutato parecchie attività a mantenere il livello produttivo. Ci sono poi alcune aziende che si sono parzialmente riconvertite nella produzione di mascherine, disinfettanti o componenti di ventilatori polmonari. Altre aziende sono state autorizzate a lavorare in deroga perché produttrici di beni funzionali ai settori essenziali rimasti aperti (per esempio, i costruttori di componenti per l’industria medicale). Tuttavia queste imprese possono lavorare solo per la quota relativa alla fornitura alla filiera cui appartengono, e non al massimo della loro capacità. Crollati anche dell’80 per cento (fonte l’Istat) gli introiti di alberghi, agenzie di viaggio, distributori di benzina. Nero anche il destino delle concessionarie di auto (120 mila addetti) e agenzie di pratiche automobilistiche (20 mila): a marzo sono stati immatricolati appena 28.326 veicoli contro i 194.302 dello stesso mese 2019.
Se da un lato, quindi, si comprende la voglia di riaprire, dall’altra non si possono giustificare quegli imprenditori che antepongono l’interesse dell’azienda a quello della salute dei loro dipendenti. Certamente subiranno un danno (in assoluto, solo i dipendenti pubblici potranno contare sullo stipendio pieno per quel periodo…), ma lo stato interverrà per dare una mano. Però, quando si sentono accalorate richieste di riaprire tutto e subito, perché si muore anche andando in auto sul posto di lavoro, come non osservare che le richieste pressanti arrivano dai datori di lavoro e mai dai loro dipendenti, che pure ci rimettono lo stipendio. Qualcuno dirà che questi hanno come cosa più cara solo la salute. È vero. Per molti “padroni”, che hanno anche i denari per curarsi meglio e corrono meno pericoli – non stando in ufficio o nei capannoni con gli altri colleghi – conta soprattutto la svalutazione galoppante dei capitali personali, a volte oscurati altrove, che perdono centinaia di milioni al giorno sulle borse. E li perdono anche i tesori imboscati nei paradisi fiscali.
C’è stato purò anche chi ha guadagnato: il comparto alimentare ha registrato un +9,6%, perché le famiglie hanno mangiato di più a casa e hanno fatto scorte di cibo; quello dei prodotti farmaceutici e terapeutici (4%), i servizi di telecomunicazione (+8%), dato che internet è l’unico mezzo che consente di lavorare da casa e di restare in contatto con parenti e amici. Gli economisti di Prometeia (società di consulenza, sviluppo software e ricerca economica per banche, assicurazioni e imprese) hanno stimato che nel corso del 2020 ci sarà un aumento percentuale nei consumi per alimentari e bevande (6,5), beni di largo consumo (4,4), sanità e assistenza sociale (3,9), farmaceutica (3,6), beni intermedi (2), poste e telecomunicazioni (1). Tuttavia, anche nei settori che vanno bene, non è tutto facile. Per esempio, l’alimentare: Federalimentare ha calcolato che l’effetto scorte ha prodotto 750 milioni di euro di vendite in più. Ma è un incremento che solo in parte compenserà le mancate esportazioni e il crollo delle vendite a ristoranti, bar e pub. In sostanza, c’è da attendersi che il fatturato complessivo dell’alimentare calerà a fine anno del 4,6 per cento, perché in tanti, avendo meno soldi e temendo un contagio, preferiranno mangiare in casa. È previsto invece un impatto attenuato, con qualche piccolo beneficio, nei settori di internet, telefonia e abbonamenti digitali, notebook e piccoli elettrodomestici, come quelli per il trattamento dell’aria.
Buio pesto per quei settori che non recupereranno più ciò che non hanno prodotto nel periodo di ultraquarantena: viaggi per turismo o affari, spettacolo, attività ricreative, cura della persona, automobili, abbigliamento. Per loro, e molti altri, c’è il pericolo concreto del tracollo, mancando di liquidità e avendo comunque spese da sostenere. E qui entra in gioco la malavita, alla quale non mancano certo i contanti e la spregiudicatezza per acquisire attività lecite. L’Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia in un rapporto di aprile ha evidenziato come “l’attuale situazione di emergenza sanitaria esponga il sistema economico-finanziario a rilevanti rischi di comportamenti illeciti” e che “gli interventi pubblici a sostegno della liquidità possono determinare tentativi di sviamento e appropriazione, anche mediante condotte collusive”. Prometeia calcola che le conseguenze sono immediate sulla capacità di sopravvivenza delle aziende: tre su quattro hanno liquidità per meno di tre mesi. Vuol dire che non riusciranno a salvarsi se l’aiuto dello stato non dovesse arrivare in tempo utile. È su di loro che soffia l’alito acidulo e funesto della malavita, pronta a impossessarsi di negozi e aziende, lasciando i proprietari come prestanome e trasformando in puliti i soldi della droga, delle estorsioni, del malaffare. Ecco perché occorre che lo stato vigili e intervenga per aiutare chi è in difficoltà.