Passione ed Eucaristia, per il fondatore dei passionisti, erano due realtà inscindibili. Tante le testimonianze
Non si comprenderebbe la spiritualità di padre Paolo della Croce se astraessimo dal binomio Passione-Eucarestia. Queste due realtà erano per lui assolutamente inscindibili. Una gli evocava l’altra come se fossero una stessa cosa.
Al riguardo ci sono testimonianze incontestabili. Negli ultimi anni in cui viveva nel convento dei Santi Giovanni e Paolo a Roma, molti andavano a visitarlo sia per un consiglio, sia per la direzione spirituale. Tra questi, spicca la giovane mistica di Cerveteri, Rosa Calabresi, che fu partecipe dei suoi ultimi carismi.
Ogni volta, avvertito del suo arrivo, racconta fra Bartolomeo, suo infermiere, si faceva trasportare in sacrestia. “Qui, si scopriva il capo, poi, davanti al Santissimo, si percuoteva il petto e piangendo supplicava con voce intelligibile: Gesù mio, pietà! Signore, abbiate misericordia di questo povero peccatore!”. I circostanti non potevano frenare le lacrime. La Calabresi, al Processo Romano, ha dichiarato: “Dalla devozione che egli aveva verso la Passione di Gesù nasceva l’altra verso il Santissimo Sacra-mento, in cui si fa speciale memoria della Passione. Devozione che non era da uomo, ma da serafino. Mi diceva perciò con gran veemenza e amore – sottolinea la Calabresi – che tutta la sua fiducia stava nel Santissimo Sacramento, che tutte le sue speranze erano riposte in lui, che il Santissimo Sacramento era quello che lo sosteneva; che talvolta per le sue malattie e abbattimenti non si poteva alzare di letto, ma che per il fervore e il desiderio che aveva di celebrare si sentiva imprimere nuovo vigore. Aggiungeva con grande impeto di spirito: Oh, che tesoro è il Santissimo Sacramento! È il Paradiso in terra! Oh, che gran pegno! Quando parlava così, si accendeva in faccia e sembrava che avesse due rose in volto: si metteva a piangere e poi si perdeva in Dio, alienandosi dai sensi”.
Nel celebrare la messa, dice padre Giacinto: “Non era né lungo, né breve, anzi quanto più era favorito dal Signore, più procurava di essere breve, per occultare così i doni del Signore”. Mentre fra Bartolomeo racconta che padre Paolo consigliava ai religiosi di non oltrepassare la mezzora. Egli, potendo, ne dava l’esempio.
“Tuttavia – precisa un altro teste – quando non vi erano astanti, durava almeno tre quarti d’ora. Terminata la messa, non tralasciava mai di fare il ringraziamento”.
Ricorda Celeste Serafina di Vetralla: “Durante la messa: l’emozione di padre Paolo si notava soprattutto quando cantava il Gloria, il Prefazio della Santissima Trinità e le parole del credo et homo factus est”. Anche padre Giammaria, suo confessore, annota che “non solo lo vedevo acceso come un serafino e tutto bagnato di lacrime, ma l’intera celebrazione era intramezzata da alcuni trilli di pianto che risvegliavano la fede e la devozione nei presenti”.
C’è una testimonianza che lascia intendere con efficacia gli atti più importanti di padre Paolo. Una volta, durante un esorcismo, il sacerdote che svolgeva quel ministero, domandò al demonio: “Cosa più ti dispiace nel padre Paolo? Il maligno ricusò di dare risposta, ma costretto dall’ubbidienza, finalmente esclamò: La Messa! la Messa! la Messa! L’esorcista allora continuò: Ci sarà qualche altra cosa di più, che ti scotta nel servo di Dio? Il diavolo furibondo rispose: La Passione! La Passione!”.
L’episodio che segue è tra i più dimostrativi dello spessore di fede che il servo di Dio aveva per il sacramento dell’Eu-carestia. Nel 1774 a Roma, un anno prima che morisse, sebbene fosse fisicamente malridotto, desiderava partecipare all’adorazione delle Quarantore. Con l’aiuto di alcuni confratelli, si fece condurre all’orchestra della basilica dei Santi Giovanni e Paolo. Giunto sul posto, vi si fece chiudere e ordinò che nessuno avesse osato disturbarlo. Quindi, sistematosi accanto alla grata da cui si vede la chiesa, con lo sguardo fisso sull’Ostensorio solennemente esposto sull’altare, si pose in profonda adorazione. Nel frattempo arrivò in portineria un cardinale che desiderava ossequiarlo. Non gli fu concesso. Più tardi, giunse un altro importante prelato, che pregò i religiosi di farglielo vedere per informare il Papa delle sue condizioni di salute. Non fu più fortunato: “Adesso – rispose padre Paolo – non è tempo di parlare con le creature, perché sta in trono il Padrone della casa, il Signore dei Signori, il Padrone del mondo!”.
Voglio chiudere l’articolo con un altro episodio non meno interessante del primo. Si riferisce al rito liturgico del Giovedì Santo, quando al termine della messa “in Coena Domini” (= Cena del Signore, ndr) si porta Gesù Sacramentato all’altare della reposizione. Questo tipico altare, prima del Concilio, veniva chiamato “Sepolcro”. Detto questo, trascriviamo la deposizione resa da fra Bartolomeo al Processo Romano: “Quando padre Paolo portava il Santissimo Sacra-mento per riporlo nel sepolcro, versava abbondanti lacrime. Piangeva tanto che bagnava il velo omerale. Deposto il sacramento, voleva tenere con sé la chiavetta. Se l’appendeva al collo e con tenerezza l’andava baciando. Non se la toglieva fino a quando non riapriva la porticina del tabernacolo per portare il Santissimo nel luogo predisposto. “Questa – esclamava – è la chiave che racchiude il mio Tesoro, il mio Bene, il mio Dio!”. Un giorno confidò al suo confessore padre Giammaria: “Non mi ricordo di aver mai portato Gesù Sacramentato al sepolcro ad occhi asciutti”.
È difficile oggi trovare uno che versi lacrime di devozione per il sacramento dell’Eucarestia. Ma un po’ più di rispetto si può.
(lancid@tiscali.it)