Tra il 1820 e il 1865 negli Stati Uniti si affermò una pratica politica – tuttora in corso – per la quale al momento dell’insediamento di un nuovo governo i vertici della pubblica amministrazione vengono sostituiti. Si tratta dello spoils system (letteralmente, “sistema del bottino”, e già il nome è tutto un programma), introdotto in Italia nel 1998 con le cosiddette leggi Bassanini. Un bene, un male? Entrambe le cose, anche se, nonostante la sua opacità, la Corte Costituzionale si è pronunciata in più occasioni sulla legittimità di questo meccanismo. A onor del vero, succedeva la stessa cosa anche ai tempi della cosiddetta Prima Repubblica. Chi vinceva cercava di mettere i suoi uomini nei punti importanti delle società che facevano capo allo Stato, oppure nei ministeri e negli enti. Quindi, le Bassanini hanno regalato, di fatto, una consuetudine. Così, a ogni cambio di maggioranza, i Governi cercano di fare bottino di questi vertici. Uomini fidati in Eni, Enel, Rai, Poste, Cassa depositi e prestiti, Leonardo e via discorrendo. Non si tratta solo di “piazzare” presidenti e amministratori delegati in società o enti, il cambio coinvolge anche i consigli di amministrazione.
Dicevamo che ci sono vantaggi e svantaggi. Assegnare incarichi pubblici ai membri del partito o a tecnici di area come ricompensa per il loro sostegno può aumentare la fidelizzazione all’interno della coalizione governativa. Fra gli svantaggi, oltre all’eventuale mancanza di competenze, si conta anche un abbassamento della fiducia nella politica. Lo spoils system, infatti, può aumentare la percezione che i posti pubblici siano utilizzati come strumento di potere e di scambio di favori. Da noi questa sensazione è molto diffusa, tanto che non pochi la ritengono una certezza. Già, perché questo meccanismo non si applica solo alle società totalmente pubbliche o controllate dallo Stato, società che in moltissimi casi sono l’ossatura portante della nostra economia: lo spoils system viene applicato anche a quelle società che spesso vengono create solo per gestire il potere, e che spesso funzionano male o addirittura per niente. Sono sulla carta, ma intanto mangiano soldi per i vertici e i consigli di amministrazione, rinzeppati di galoppini, portaborse e amici degli amici ai quali vengono affidati anche lauti contratti di consulenza. Un carrozzone di 886 società pubbliche controllate da ministeri, Regioni, Comuni ed enti vari che a volte hanno più amministratori che dipendenti. Anzi, alcune di queste non hanno nemmeno un addetto, ma pagano una pletora di componenti di consigli d’amministrazione, revisori dei conti ed esperti. In alcuni casi per compiti che potrebbero essere svolti dagli enti proprietari stessi o che poco o nulla hanno a che fare con il servizio pubblico.
Si tratta di una palla al piede – come ha spesso rilevato la Corte dei Conti – che costa 10 milioni di euro l’anno di prebende. Numeri che sono stati messi nero su bianco nell’ultima relazione del Servizio di controllo parlamentare della Camera sulla galassia delle società pubbliche. “Su un totale di 3.240 società partecipate – si afferma nel dossier – 886 società, pari al 27,35 per cento, risultano prive di dipendenti (559) o con un numero di dipendenti inferiore al numero degli amministratori (327)”. Ovviamente, ogni maggioranza che sale al governo del Paese promette, assicura che taglierà questi rami secchi. Nel 2016 la legge Madia stabilì la chiusura di quelle società che non rispettano alcuni parametri, a partire dal rapporto tra dipendenti e amministratori, ma siamo ancora al punto di partenza, perché c’è sempre un parlamentare, un consigliere regionale o comunale trombati da risistemare, o portatori d’acqua da ricompensare. Poco importa se la gente si scandalizza, ciò che conta è mantenere in attività il carrozzone. Ciò che colpisce, non sono i cambi ai vertici di quelle società o di quegli enti che svolgono un ruolo attivo; ciò che indigna è la pervicacia con cui qualsiasi governo, di qualsiasi maggioranza, di qualsiasi periodo storico continua a far finta di nulla e a non usare la forbice. Chi non ricorda quel ministro che come dicastero aveva quello della Semplificazione? Chi ricorda se ha semplificato qualcosa? Nulla. Così, ciclicamente riappare la società per azioni “Stretto di Messina”. Costituita nel 1981, negli ultimi anni ha avuto zero dipendenti ma ha pagato un liquidatore e una manciata di consulenti e revisori dei conti vari. È stata tirata fuori dal cilindro, ma non potrà funzionare perché non c’è traccia dei dieci miliardi di euro necessari per farla funzionare e ottenere il risultato.
Quella del fantomatico ponte tra Calabria e Sicilia è certamente la società più famosa (l’ultimo compenso per il liquidatore era di 160 mila euro all’anno e per il nuovo Cda è stata prevista la deroga al tetto dei 240 mila euro), ma è in ottima e nutrita compagnia. In Friuli c’è una società che gestisce un aeroporto turistico con una manciata di piccoli aerei da turismo, ma che conta un Cda di tre persone, sei tra sindaci e revisori dei conti e appena cinque soci pubblici. Avrebbero dovuto liquidarla nel 1979, ma sta ancora lì. Poi ci sono il Gal i Luoghi del Mito o il Gal dell’Oltrepo Pavese, la Società consortile del Gran Sasso Laga, il Consorzio nazionale per la ricerca per la gambericoltura, l’autodromo del Veneto, la società agricola di Cittadella e via di questo passo. Tra le attività delle controllate pubbliche c’è di tutto: pesce, grano, auto, turismo, servizi. Il meccanismo con il quale anche i più antiquati di questi organismi riescono a sfangarla contempla una serie di varianti: si va dall’avvio della procedura per la cancellazione per poi passare a una riorganizzazione; oppure si cambia il nome o si rinvia la scelta finale a nuove norme. In casi estremi, si presenta un ricorso al Tar ed eventualmente al Consiglio di Stato per congelare la pratica: qualcosa succederà. Per esempio, l’Ente nazionale della montagna, che si sovrappone all’altra giungla delle Comunità montane (anche loro in lista d’attesa per i tagli), sembrava destinato a una definitiva eliminazione. Poi sono scesi in campo parlamentari del centrodestra, del centro, del centrosinistra, del di sopra e del di sotto, tutti protettori dei nostri bei monti, e l’Ente, con un colpo di bacchetta magica, è diventato Istituto nazionale della montagna. Costo del salvataggio: 490 mila euro l’anno. Oltre duecento di queste entità sono in perdita. Ma, come canta Renato Zero: “Il carrozzone va avanti da sé, con le regine, i suoi fanti, i suoi re”.