A molti non sarà sfuggita la notizia di quell’operaio della Sevel di Val di Sangro che è stato risarcito dalla giustizia perché, suo malgrado, ha dovuto soddisfare il bisogno di fare pipì nei pantaloni perché impossibilitato, per esigenze di produzione, ad allontanarsi dal posto di lavoro per raggiungere il bagno. In pratica se avesse abbandonato il posto di lavoro per andare al bagno avrebbe causato un danno produttivo all’azienda. Vanto e fiore all’occhiello dell’industria automobilistica made in Abruzzo. Allora ha preferito, o meglio è stato costretto, a farsela addosso. Immaginiamo la reazione di ilarità e sconcerto dei colleghi di lavoro. E il trauma subito dal lavoratore non più in età pre-adolescenziale nella quale queste trasgressioni non sono nemmeno tollerate da genitori tanto severi quanto ignari delle ragioni recondite che causano fenomeni di questo tipo. L’azienda, chiamata a rispondere di aver leso la dignità, l’onore e la reputazione del dipendente, si è difesa sostenendo che “il dipendente doveva attendere solo qualche minuto prima di allontanarsi dalla postazione, dopo averne fatto richiesta”. I giudici non hanno condiviso queste ragioni e hanno condannato l’industria automobilistica al risarcimento di 5 mila euro e al pagamento delle spese legali.
Fin qui i fatti di cronaca. Poi ci sono le considerazioni che possiamo formulare anche in ordine sparso, tanto il risultato non cambierebbe. Prima considerazione: il grande senso di responsabilità del lavoratore. Ha preferito ledere la sua dignità personale piuttosto che causare un danno all’azienda. E – aggiungiamo noi – a se stesso perché sarebbe stato quantomeno richiamato per abbandono del posto di lavoro con tutte le conseguenze del caso.
Seconda considerazione. Scartata l’ipotesi dell’allontanamento non autorizzato dal posto di lavoro e dato atto dell’arrivo inarrestabile e irresistibile (a chi non è capitato almeno una volta?) dello stimolo urinario, al povero operaio restavano due opzioni: farsela addosso oppure farla, con ostentata spavalderia o malcelata timidezza, lì a fianco, sul posto di lavoro. Nel primo caso sappiamo come è andata, nel secondo – ipotizziamo solo come puro esercizio di divagazione, diciamo, letteraria – se non un’accusa di atti osceni in luogo pubblico, avrebbe rischiato almeno un procedimento disciplinare per possibile danneggiamento di delicati macchinari di produzione. Non si sa mai, qualche schizzo qui o là. Chi non è mai stato rimproverato dalla propria moglie e dalla propria madre per non aver perfettamente centrato l’ovale o il tondo della tazza?
Terza considerazione – quella vera, che prescinde dalle divagazioni giornalistiche e dalle spiritosaggini di facile acquisto sul libero mercato delle insulsaggini – è quella che hanno sollevato i giudici. È mai possibile che un’azienda di tale portata nazionale e internazionale “non abbia predisposto un sistema organizzativo che consenta, anche nel caso in cui tutti i dipendenti addetti alle sostituzioni dei lavoratori siano, per le più svariate ragioni, impossibilitati alla sostituzione, al lavoratore di allontanarsi dalla propria postazione lavorativa per soddisfare un bisogno primario, non controllabile e non preventivatile”? Ma tant’è.