La frase più conosciuta e citata di san Paolo della Croce, il fondatore dei passionisti, in riferimento alla Passione è: “La Passione di Gesù è la più grande e stupenda opera del Divino Amore” (Lettere,II, 489). La citano anche coloro che di san Paolo della Croce conoscono veramente poco. Un’altra frase simile è: “La Passione di Gesù è il miracolo dei miracoli del Divino Amore” (Lettere II, 726).
E nel Nuovo Testamento si trovano i fondamenti biblico-teologici della dottrina della Passione propria di san Paolo della Croce.
Dio è carità, è amore (1Gv 4, 4)
Nella sua prima Lettera Giovanni dice molto sinteticamente Dio è agàpe, è carità, è amore. Non era questa una definizione della Divinità diffusa nella filosofia del tempo, dove Dio era definito piuttosto come Pensiero del Pensiero, Motore immobile, l’Assoluto (non condizionato), l’Eterno, L’Essere che è tale per essenza. In queste e in altre definizioni, Dio sembrava piuttosto essere sottratto alle relazioni con altre persone, con le sue creature, piuttosto che esserne attratto. Definendolo come carità o amore, invece, si definisce in relazione ad altri.
Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per coloro che egli ama (Gv 15, 13)
Ma come si dimostra questa carità con la quale Dio si immedesima nel definirsi come Amore? Si dimostra soprattutto col dono di sé, della propria vita. Questa seconda frase trascina immediatamente la Carità verso la Passione e spiega bene le espressioni che amava ripetere Paolo della Croce: la Passione è il più grande miracolo dell’Amore perché è dono della Vita. L’amore è dono. In quanto viene definito come amore, Dio viene per ciò stesso definito come dono, quasi che questa fosse la sua stessa essenza.
Amare e dare la vita è spogliamento di sé e abbassamento (Fil 2, 1-11)
Il capitolo secondo della Lettera di Paolo ai Filippesi esplicita il processo che porta il Figlio di Dio dalla condivisione della gloria del Padre all’estremo abbassamento della Croce: Il Figlio uguale al Padre nella Divinità se ne priva divenendo uomo, ma poi si priva anche della gloria umana facendosi l’ultimo degli uomini, prendendo su di sé la morte degli schiavi, la crocifissione. È il processo di spogliamento di sé che, con una parola greca peraltro non difficile, ma assai comune oggi, viene chiamato kènosi, abbassamento. Non difficile, dicevo, se pensiamo che anche una semplice ragazza come Teresa di Gesù bambino la esprimeva scrivendo nella propria lingua: Aimer c’est s’abaisser: l’amare implica l’abbassarsi. Ma proprio qui sta la manifestazione del profondissimo mistero del Dio-Amore. Il Crocifisso è l’icona vivente dell’inconoscibile Dio, dice la Lettera ai Colossesi. In qualche modo per noi incomprensibile, Dio nel suo mistero profondo è sempre crocifisso. Possiamo trovare una conferma sperimentale di questa affermazione teologica rendendoci conto che, essendo lui il Creatore, viene negata persino la sua esistenza.
È importante riflettere sul fatto che tutta questa profondissima teologia, che abbiamo chiamato metafisica della Passione, l’apostolo Paolo la introduce parlando dell’accoglienza reciproca che ci deve essere in ogni famiglia e comunità cristiana: “Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Nessuno persegua solo il suo proprio interesse, ma anche quello degli altri” (Fil 2, 3-4). Si può capire facilmente come da un insegnamento di questo genere proceda quel passo di un’altra lettera di san Paolo, la prima ai Corinti, che è chiamato l’inno della carità: La carità è paziente, è benigna, non è invidiosa… tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta (1Cor 13). Come ci si immedesima con Dio? Come si diventa, per quanto è possibile a noi, ciò che lui è? Amando, risponde la Bibbia, divenendo fattivamente amore come Dio è amore.