Negli ultimi quarant’anni nel nostro Paese ci sono state sedici proposte di legge depositate in Parlamento per rendere questa materia obbligatoria. Nessuna, però, si è mai concretizzata demandando tutto alle iniziative dei presidi e delle singole regioni
Sulla proposta di introdurre l’educazione alla sessualità e all’affettività nelle scuole italiane se ne discute da decenni. È tornata prepotentemente d’attualità negli ultimi mesi dopo i casi di cronaca che hanno riguardato diverse donne stuprate (come è successo a settembre nel Parco Verde di Caivano, alla periferia di Napoli) o uccise dai propri partner. Oggi nelle scuole italiane questa materia non è obbligatoria. Come accade, per restare in Europa, in altri sei Paesi: Ungheria, dove una legge si assicura che il materiale scolastico non contenga nulla che promuova “la divergenza dall’auto-identità corrispondente al sesso di nascita, al cambiamento di sesso o all’omosessualità”, Bulgaria, Cipro, Romania, dove ancora fa discutere la legge dell’anno scorso che istituisce “l’educazione sanitaria”, Lituania e Polonia dove ad agosto è stata approvata in via preliminare una legge che vieta l’accesso nelle scuole a Ong che “promuovono la sessualizzazione dei bambini”.
Negli ultimi quarant’anni nel nostro Paese ci sono state sedici proposte di legge depositate in Parlamento, nessuna delle quali però si è concretizzata. La prima risale al 1975. Nel 91, governo Andreotti, sembrava quasi fatta per la legge che la rendeva una materia (non obbligatoria) a partire dalla scuola primaria. Ma l’anno successivo non ottiene l’approvazione del Parlamento perché nel frattempo era scoppiata Tangentopoli e tutto resta sospeso.
Nel 2015 i ministeri della Salute e dell’Istruzione sottoscrivono un Protocollo d’intesa per la tutela del diritto alla salute e all’istruzione che prevedeva di promuovere un tavolo tra i rappresentanti dei due ministeri e tecnici esterni. Scopo: “Adeguare al sistema scolastico italiano le linee guida dell’organizzazione Mondiale della Sanità sugli standard per l’educazione sessuale in Europa”. Finito nel nulla anche questo.
Nel 2018 l’Unesco ricorda che “l’educazione sessuale nelle scuole consente a bambini e ragazzi di sviluppare conoscenze, competenze, atteggiamenti e valori che li metteranno in grado di realizzarsi, nel rispetto della loro salute, del loro benessere e della loro dignità”. Stessa cosa aveva sostenuto nel 2010 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomandando che s’iniziasse “fin dalla tenera età”.
“Educazione alle relazioni”
Il 22 novembre, quattro giorni dopo il ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin, la giovane veneta uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta, il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha presentato il progetto per introdurre L’Educazione alle relazioni: 30 ore all’anno di lezioni agli studenti delle superiori, per far prendere loro “coscienza dei propri atteggiamenti” e delle conseguenze, anche penali, che possono comportare. Il progetto prevede gruppi di discussione e autoconsapevolezza tra gli studenti che lavorino utilizzando la metodologia del T group, il “sensitivity training group”, ovvero gruppi di addestramento alla sensibilità, e docenti che operino con il riferimento dei Gruppi Balint, cioè con un metodo che ha per scopo la formazione alla relazione e la promozione del benessere. Con il coinvolgimento, oltre che del Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, anche di influencer, cantanti e personaggi amati dai ragazzi in qualità di ambassador.
Il Protocollo che istituisce il progetto, siglato dai ministri della Cultura e della Famiglia oltre che da quello dell’Istruzione, avrà una durata di 2 anni a decorrere dalla data della sottoscrizione e potrà essere rinnovato previo accordo fra i dicasteri interessati. Il progetto prevede, oltre all’individuazione di un docente animatore-moderatore e di un docente referente, la costituzione di un gruppo-classe, che si riunirà una volta alla settimana in orario extracurricolare e che potrà coinvolgere anche esperti in educazione affettiva e relazionale, avvocati, assistenti sociali, operatori di organizzazioni attive nel campo del contrasto alla violenza di genere. Al termine del lavoro si chiederà a ciascuno studente di scrivere una relazione sull’esperienza svolta. Gli elaborati poi, dovranno essere inviati al ministero dell’Istruzione. Il 25 novembre inoltre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, le scuole dovranno organizzare incontri con esperti per dare il segnale che la data non è una ricorrenza da celebrare ma un momento focale di impegno concreto per lavorare su un nuovo modello di relazione tra i sessi. “È un progetto che non nasce oggi ma che è stato elaborato e sviluppato, modificato e migliorato – ha spiegato il ministro Valditara – la lotta contro la violenza di genere, lo sradicare dalla nostra cultura il maschilismo o forse meglio si direbbe il machismo, rientra in quella più ampia visione di una scuola che è improntata al rispetto della persona”. Alla domanda sul perché non viene approvata una legge nazionale, Valditara ha risposto: “Innanzitutto c’è l’educazione civica e ci sono anche le altre materie, poi perché la legge impiega del tempo, non è auto applicabile. Allora tanto vale non perdere tempo e intervenire subito”.
In ordine sparso
In assenza di una legge nazionale, infatti, da anni ormai si va in ordine sparso e tutto è demandato alle iniziative dei presidi e delle singole regioni che possono decidere di destinare fondi per istituire dei programmi di educazione alla sessualità e all’affettività nelle scuole che vengono tenuti da figure esterne all’ambito scolastico come medici, psicologi e biologi. In altri contesti, al contrario, l’educazione sessuale è un tabù. Nell’anno scolastico 2016/2017 su 5.364 istituti pubblici superiori neppure 1.400 hanno attivato percorsi di educazione sessuale e di promozione di comportamenti sicuri. Il loro numero è progressivamente cresciuto fino a coinvolgerne 1.600, per poi calare con la pandemia. Gli istituti del centro-nord e delle grandi città sono i più attivi, mentre solo il 17% delle attività ha coinvolto i giovani del Sud. Appena 13 progetti (su 232) hanno interessato le scuole primarie.
Risultato? Frammentazione e disomogeneità, come spiega Paola Marmocchi psicoterapeuta, responsabile degli Spazi Giovani dell’Azienda USL di Bologna e coautrice del libro Percorsi di educazione affettiva e sessuale per preadolescenti: “Le iniziative così risultano di diversi orientamenti, parcellizzate e disomogenee sul territorio. Non sono governate da nessuna cornice legislativa unitaria che promuova globalmente la salute sessuale dei giovani fornendo indicazioni precise su obiettivi, metodi o contenuti dei programmi, come suggerito dalle Linee guida internazionali”.
Le polemiche
La vicenda suscita diverse polemiche a livello politico perché per la destra l’educazione alla sessualità è solo un cavallo di Troia per introdurre le tematiche Lgbtq+ nelle scuole. Per molti specialisti, invece, il rischio è che si riduca tutto a spiegare l’utilizzo degli anticoncezionali nei rapporti sessuali. Gigi De Palo, per esempio, presidente della Fondazione per la Natalità ed ex presidente del Forum Famiglie, ha spiegato che “oggi i corsi di educazione sessuale si limitano a dare per scontato tutto, ti insegnano a usare i metodi anticoncezionali e ti parlano di sesso anale e orale come se niente fosse. No, qui dobbiamo tornare a raccontare la specificità maschile e femminile, la bellezza dell’incontro, il corteggiamento, il rispetto, l’amore, il dono di sè… Basta semplificazioni. Anche qui c’è una complessità da educare, ci sono adulti che devono tornare a fare gli adulti senza delegare l’educazione ai siti pornografici”.
Un’altra questione non da poco riguarda chi deve occuparsi di questa materia: la scuola, la famiglia, la sanità, le associazioni? “La scuola – spiega Marmocchi – può inserire contenuti legati all’affettività e alla sessualità nella programmazione scolastica, a condizione che gli insegnanti seguano formazioni specifiche e approfondite, per poter offrire ai loro studenti occasioni di dialogo, pensiero critico, consapevolezza, indispensabili per la crescita. Gli insegnanti che fanno educazione sessuale necessitano di strutture di supporto e devono avere accesso a momenti di supervisione”.
L’altra questione riguarda il “come”: quali argomenti trattare, quali valori promuovere, quali obiettivi porre alla base degli interventi. Ne ha parlato, con spirito critico, la sessuologa e insegnante francese Thérèse Hargot, autrice di vari libri tra cui Una gioventù sessualmente liberata (o quasi). “L’educazione sessuale che c’è oggi nelle scuole non funziona – ha spiegato – perché propone mezzi cattivi per rispondere a bisogni veri degli adolescenti come quello di costruire la loro identità. I ragazzi sono abitati da grandi questioni esistenziali: chi sono io? Qual è il senso della vita? Sono una persona amabile e unica? La riposta che gli adulti danno loro sono il preservativo e la pillola. Ed è chiaro che è un fallimento perché il preservativo e la pillola non sono risposte a questi interrogativi. Dobbiamo raggiungere i ragazzi in queste grandi questioni esistenziali, proponendo loro corsi di filosofia invece che corsi di educazione sessuale, dobbiamo proporre degli atelier di sviluppo personale, dobbiamo dare la possibilità ai giovani di fare esperienze che permettano loro di conoscere sé stessi molto di più di quanto facciano andando a bere o facendo sesso promiscuo. Nelle nostre società occidentali abbiamo soppresso tanti riti d’iniziazione ma i giovani ne hanno trovati altri: l’alcol, il sesso, la droga. Ovviamente tutte queste esperienze, anziché consolidare la loro identità di uomini e donne, l’hanno resa ancora più fragile e precaria”.