Un incubo. Licenziati di notte con un post su facebook. La propria esistenza sconvolta da un social che in questo caso significa l’esatto opposto di sociale e quindi, per estensione semantica, sinonimo di solidarietà e del vivere in comune. È quello che le cronache dello scorso fine maggio ci hanno raccontato del destino di 1.800 lavoratori dei 55 negozi di Mercatone Uno, l’importante catena italiana di ipermercati, una delle prime catene in assoluto della grande distribuzione non alimentare. Nata nel 1975, dopo i primi grandi successi di pubblico, l’azienda ha attraversato momento di crisi, passando anche per l’amministrazione straordinaria. Nel giugno del 2018 è stata venduta a due gruppi. Tutti conosciamo il marchio riprodotto sulla maglia del grande campione di ciclismo Marco Pantani. La sede della società si trova a Imola, affianco all’autostrada A14, dove è visibile una grossa biglia che contiene l’immagine del “Pirata”. Mercatone uno ha in Abruzzo tre grandi punti vendita a Colonnella, Scerne di Pineto e Sambuceto e anche i loro dipendenti hanno appreso di non aver più un lavoro durante la notte con un messaggio su facebook.
Probabilmente per loro è stata la notte più brutta dell’esistenza: sapere che al mattino avrebbero trovato il posto di lavoro sbarrato, senza possibilità di accesso nel luogo che per anni ha rappresentato la garanzia di una vita decorosa. Centocinquanta persone gettate sul lastrico non con una comunicazione formale, che se non attenua la drammaticità della perdita del posto di lavoro, almeno non spersonalizza fino al punto di essere considerato, dopo anni di dedizione all’azienda, un semplice utente di un social. Non un messaggio di allegria, non un’immagine di un compleanno, non un’opinione, più o meno continente, nei confronti di un politico, non la festa della nonna con torta e candeline, ma un licenziamento. Su facebook.
Tralasciamo le disavventure di questa azienda la cui gestione è stata fallimentare e soffermiamoci su come vengono ormai comunicate le cose grandi della vita e in primis il lavoro, atavico problema nazionale. Perderlo con un post o un twett. Il social prima di tutto. Il proprio licenziamento, che per i tempi che corrono equivale ad una tragedia in famiglia – con l’impossibilità di pagarsi il mutuo della prima casa, con la prospettiva di far mancare addirittura l’essenziale per la famiglia e i figli – appreso con una comunicazione fulminante, con un messaggio, senz’altra spiegazione se non quella del divieto per i dipendenti di accedere ai locali dell’azienda a poche ore dalla riapertura dei negozi. Qualcuno avrà l’ardire di esclamare: “È il segno dei tempi”. Certo, sicuramente il segno di un tempo nel quale si sta smarrendo la cifra della vita reale, fatta di bisogni veri (casa, affitto, sostentamento familiare, mutuo, bollette, assicurazione auto, scuola e tanto altro ancora): il social che batte la realtà.
La comunicazione, più o meno virtuale, che prende il sopravvento sul rispetto della dignità delle persone. Tutto quello che non passa per i social non è reale. Tutto diventa una sorta di spettacolarizzazione della vita. Fuor di ogni retorica, che cosa devono fare questi lavoratori e padri di famiglia? Forse pubblicare su facebook le lacrime che hanno accompagnato il sapere di non avere più un posto di lavoro o la disperazione per non poter pagare le cose essenziali per i bisogni primari? Qualcuno di loro, forse, preso dalla disperazione lo farà anche, ma tanti altri non avranno il coraggio di farlo per rispetto della propria dignità di donna, di uomo, di giovane, di genitore. Finché ci sarà qualcuno a difendere la propria dignità c’è ancora speranza. Mentre non è dignitoso quello che ha fatto l’azienda Mercatone Uno nei confronti dei lavoratori avvisandoli di notte del licenziamento. Solo un altro aggettivo di può aggiungere ancora: inumano.